sabato 5 maggio 2007

AEIOU: Anthropical Evolutionary Impact On Ultrationality

Prima di parlare direttamente dell'argomento del post, introduco brevemente chi l'ha richiesto. Il Pantheon Ultrazionale non è un monolocale per solitarie divinità affette da megalomania: tante e difformi sono le Potenze che ne plasmano la struttura e la forma, così come contrastanti sono le manifestazioni della loro influenza. Ovviamente, il Demiurgo è l’Unico Ultrazionale, ma non è il solo essere razionale che calca il Logos con il suo 42 e 1/2 di scarpa. Tra le varie semi(sceme)-divinità minori spicca l’(E)neocelta, il razionale (e)neo-romantico e mitofilo. Arcaico amico del Demiurgo e compagno di innumerevoli discussioni (e birre), l’(E)neocelta è, nella forma come nella sostanza, una versione cenozoica (e quindi fondamentalmente ammorbidita) di razionalità ibrida. Per uno straordinario caso di convergenza culturale, l’(E)neocelta del Pantheon Ultrazionale è molto simile (nella forma come nell’ethos) a Tulkas, uno dei Valar del Sirmarillion (chi conosce il “Signore degli Anelli” di Tolkien solo dai film è biasimabile, chi ne ha letto i libri è stimabile, ma solo chi ha anche letto il “Sirmarillion” può meritare una menzione in questo post):
"Massimo in forza ed atti di prodezza è Tulkas, soprannominato Astaldo, il
Valoroso. Egli è giunto per ultimo in Arda, ad aiutare i Valar nelle prime
battaglie con Moldor. Trae piacere dalla lotta e dalle prove di forza; e non
cavalca destriero, per la semplice ragione che può superare alla corsa tutte le
creature che vanno a piedi, ed è instancabile. Ha i capelli e la barba dorati,
il suo incarnato è roseo; le sue armi sono le mani. Poco si cura del passato che
del futuro, e a nulla vale come consigliere, ma è un amico costante."
A parte l’accenno alla corsa (si è recentemente spaccato un ginocchio...) il resto è incredibilmente simile, in particolare l’ultima frase: difatti, di norma, è l’Ultrazionale a fungere da consigliere per l’(E)neocelta. In parte, ciò è dovuto all’età: come ogni essere cenozoico, è più giovane ed immaturo: lo dimostra il suo morboso attaccamento al pensiero mitico, la sua incapacità di passare alla gioiosa rabbia del pensiero teoretico (per non dire delle sue molto discutibili privazioni alimentari... ma di questo parleremo in altra occasione).
Dopo l’inevitabile introduzione, passiamo al post.
In un recente commento, l’(E)neocelta ha chiesto l’e(n)nesimo consiglio/parere:
“Volevo chiederti inoltre se, secondo te, la situazione attuale del pianeta e la
sua immensa antropizzazione rendano ancora possibile l'evoluzione (processi
evolutivi, selezione naturale, mutazioni permanenti "adattanti" o conservate dal
caso, processi di speciazione) in specie diverse dall'uomo, finché la specie
umana esisterà? Io sono scettico a riguardo (soprattutto per quanto riguarda i
classici animali e piante a strategia K). Credo che l'impatto antropico sulle
condizioni ambientali, sulle specie stesse (selezione artificiale, gestione del
territorio, agricoltura, allevamento, ecc.) corra a velocità estremamente
maggiori rispetto a quelle dei meccanismi riproduttivi delle specie sovresposte
e dell'insorgenza di mutazioni adattanti o "fortunate" (concedimi il termine, ti
prego).”
Il termine “fortunate” se deriva dalla dea bendata, va molto bene.
Credo che l’impatto evolutivo della specie umana sia minimo sulla lunga scala (milioni di anni): anche ammettendo, molto ottimisticamente, che la nostra civiltà persista per altri 5.000 anni (un tempo gigantesco alla scala delle civiltà, ma appena al limite inferiore della scala dei tempi microevolutivi) l’umanità inciderebbe ben poco sugli eventi di macroevoluzione.
Se per evoluzione intendi semplicemente l’adattamento delle popolazioni alle condizioni locali, allora l’evoluzione è in atto anche ora. Moltissime specie si sono adattate al mondo antropico e sono state avvantaggiate dai mutamenti indotti dall’uomo. Moltissime specie di insetti, e molte di mammiferi ed uccelli si sono adattate a vivere nelle città, negli ambienti di campagna (la campagna è un ambiente artificiale ed antropico esattamente come le città) e sono in espansione, molte specie hanno esteso il loro areale di distribuzione in maniera impensabile sotto la sola azione delle forze naturali (pensa alla nutria, animale sudamericano che ora è diffuso anche qui: ora l’areale della specie è intercontinentale, con notevole vantaggio per la possibilità evolutiva della nutria).
Ovviamente ci sono specie minacciate dall’espansione umana, sopratutto specie direttamente in competizione con noi per spazio e risorse (ovvero gli altri mammiferi di grande taglia ed a strategia K: l’uomo è un mammifero di grande taglia -la maggioranza delle specie è molto più piccola di noi- ed ovviamente quelle più a diretta competizione ecologica con noi sono quelle di taglia pari o maggiore alla nostra. Inoltre l’uomo segue la più intensa delle strategie K - le nostre cure parentali sono le più lunghe ed intense - e quindi compete con gli altri animali K per spazio e risorse. Questa minoranza dei mammiferi grandi e “K-orientati” è “appariscente” proprio perché comprende forme ecologicamente simili a noi, ma non necessariamente costituisce il principale motore degli ecosistemi: micromammiferi, uccelli ed artropodi sono i veri pilastri dei biomi terrestri).
Inoltre, se per evoluzione intendi la speciazione (la formazione di nuove specie), considerando che l’attività umana tende a frammentare gli ecosistemi e gli habitat, allora l’uomo è un potente agente di innesco per i processi di speciazione. Tornando all’esempio della nutria: se la nutria importata in Europa continuerà a persistere con questo successo da noi per altri millenni, è probabile che originerà una nuova specie distinta dalla popolazione ancestrale sudamericana: non potendosi più incontrare, le due popolazioni alla fine divergeranno geneticamente e poi anche morfologicamente. In termini evolutivi, l’azione umana produrrà sia estinzioni che speciazioni: estinzione dei nostri competitori diretti (questo fenomeno è in atto da almeno 40.000 anni, quando eliminammo i nostri competitori più diretti, ovvero gli altri ominidi, e si è protratto con l’over-killing della megafauna pleistocenica operato dai primi uomini giunti in America ed Australia, si è intensificato con la rivoluzione agricola fino ad estremizzarsi ora che siamo miliardi), ma anche creazione di nuove nicchie (ambienti antropici favorevoli a molte specie opportuniste) e frammentazione degli habitat con impulso a nuove speciazioni.
Curiosamente, l’ottica distorta di molti osservatori tende a lamentarsi sia per l’estinzione delle specie K sia a lamentarsi per l’espansione delle specie r (come la nutria): eppure, nel secondo caso, se davvero ci sta a cuore la “vitalità” della Vita e la “sopravvivenza” delle specie, dovremmo rallegrarci della potenza espansiva di quegli organismi capaci di cavalcare l’onda dell’antropizzazione. Ma, credo, ciò è solo l’effetto di un pregiudizio “romantico” sulla natura e sull’uomo. Esattamente come i cambiamenti climatici sono visti come “apocalisse” da chi è miope sulla naturale imprevedibilità e potenza evolutiva del clima, così le dinamiche di estinzione-evoluzione perennemente in atto sono viste come “disturbo”, “alterazione” e “squilibrio” di un inesistente e mitizzato “ordine naturale”.
Di fatto, la maggioranza delle specie che gli ambientalisti cercano di difendere sono già estinte, ovvero sono popolazioni già sotto il limite minimo di sussistenza evolutiva: ovviamente è buona cosa preservarne vivi degli esemplari, ma già il fatto stesso che delle specie “debbano essere preservate” è il segno che esse non sono più in grado di auto-sostenersi (e quindi non sono più specie “naturali”): si può dire che sono come dei “malati terminali” mantenuti in vita artificialmente.
Da quest’ultima nota, deriva il dubbio che l’attuale ambientalismo possa degenerare in accanimento terapeutico.

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