lunedì 23 aprile 2007

Il fascino irresistibile della nostra (presunta) superiorità

Con questo post si inaugura un filone particolare dell’Ultrazionale, il suo sancta sanctorum: qui battezzato “Doctor Kause - Paleontological Division”, palese parodia del noto telefilm. Per agevolare la fruizione, ogni nuovo post di questo filone sarà sempre accompagnato dal logo:In questo sotto-livello dell’Ultrazionale si parla principalmente di Storia Naturale, in particolare di paleontologia (“lo studio dell’essere antico”), ma sotto un’ottica più generale, “interdisciplinare”. Ovvero, quanto la Storia Naturale ci aiuta nella comprensione dell’uomo, della sua “natura” e del suo “senso”? Aldilà delle squisite informazioni anatomico-funzionali che ci dà la scienza naturale, cosa possiamo comprendere della “cultura” umana attraverso il filtro naturalistico? Se vi riconoscete nelle conclusioni dei precedenti post, allora converrete che le vecchie mitologie cosmogoniche e antropocentriche delle religioni tradizionali possono (anzi, devono) essere sostituite dalle moderne cosmologie e cronologie naturalistiche nel ruolo di fondamenti della Civiltà.
In questo primo caso, più dei fatti paleontologici diretti, l’oggetto della discussione sarà la loro interpretazione, o, meglio, il modo con il quale i nostri preconcetti distorcono la valutazione e l’interpretazione delle evidenze.
Abbiamo appena detto che è necessario sostituire le vecchie cosmogonie con la moderna Storia Naturale: ciò implica anche il superamento dell’impostazione moralistica che tende (a seconda dell’interpretazione che si dà all’attuale) a idealizzare il passato in opposizione al presente: se si detesta l’oggi, allora il passato è “l’età dell’oro”, i “bei tempi”; se si ha un’impostazione progressista e ottimisticamente (ingenuamente) proiettata al futuro, allora il passato è l’età buia e arretrata, l’errore ed il caos primigenio. Purtroppo, anche in molti di quelli che hanno riconosciuto la validità della Storia Naturale come spiegazione alternativa delle origini, l’impostazione moraleggiante che idealizza il passato tende a permanere, producendo astruse distorsioni delle evidenze. In particolare, la consapevolezza che l’umanità esiste da un tempo infimo della Storia Totale (come evidenziato nel precedente post “Egocentria Genetica”) deve risultare particolarmente fastidiosa in tutti i malati di antropocentrismo, che continuano a volersi sentire “necessari”, “previsti” e “inevitabili”. La soluzione contorta che essi tendono a inventare è la favola bio-progressista, la versione finalista dell’evoluzionismo biologico. Essa afferma che la comparsa dell’umanità era inevitabile proprio in virtù delle leggi dell’evoluzione: se l’evoluzione è sopravvivenza del più adatto, e l’uomo è il più adatto/adattabile degli esseri viventi, allora l’evoluzione non sarebbe altro che la dimostrazione del cammino necessario verso la nostra inevitabile esistenza. Partendo da questo preconcetto egocentrico (e miope), tutta la storia pre-umana può essere distorta a nostro uso e consumo (consolatorio). Fortunatamente, tra i ricercatori questo modo di vedere è stato superato, e più nessuno crede di vedere negli eventi del passato remoto una necessaria anticipazione della nostra comparsa. Al contrario, nella nebulosa galassia della divulgazione e del giornalismo scientifico il pregiudizio permane: la distorsione delle evidenze si attua con la manipolazione di tutti quei casi della Storia che non rientrano nella nostra antropocentrica attesa di linearità storica, oppure con la palese esaltazione di quelli che possono avvalorare la consolante premonizione della nostra esistenza. Ad esempio, la storia degli insetti non è quasi mai citata: eppure da soli essi riempiono l’80% delle specie animali note, e probabilmente occupano questa quota da quando hanno le ali. Forse perché in animali così lontani e poco umani non si riesce a trovare qualcosa di affine, di nostro? Di fatto, gli eventi della storia degli insetti ricordati sono i soliti due: acquisizione del volo nel Carbonifero (con solita immagine delle libellula gigante) e coevoluzione con le piante a fiori nel Cretacico. Punto e basta: trecentocinquanta milioni di anni e chissà quante decine di milioni di eventi evolutivi ridotti a due citazioni ai margini della Storia (quella che porta a Noi).
Ma il vero apice della manipolazione è negli equivalenti moderni dei draghi e dei giganti mitologici (ennesima prova che l’impostazione favolistica non è ancora morta), negli unici animali fossili che siano noti a più del 1% della popolazione: i dinosauri mesozoici. L’elenco delle distorsioni concettuali applicate a questo clade di vertebrati è infinita (proprio ieri ho sentito in un TG un giornalista parlare dei vertici della Federcalcio come di “Dinosauri”, per intenderci: di esseri vecchi e “superati” non al passo coi tempi). In parte, ciò si può spiegare considerando che le nuove scoperte scientifiche iniziano a diffondere nel resto della società con un ritardo di almeno una generazione, e che, pertanto, la vulgata attuale sui dinosauri non è altro che la fedele trascrizione dell’impostazione scientifica di mezzo secolo fa, quando dinosauro era quasi universalmente riconosciuto come un “grande rettile estinto... ovviamente estinto nella competizione con i più evoluti mammiferi, nostri parenti ed antenati remoti”.
(Oggi la paleontologia ha riconosciuto l’errore insito nell’impostazione antropocentrista e non valuta più gli eventi in maniera così sciovinista. Al contrario, negli ultimi 25 anni una mole gigantesca di nuovi dati ha evidenziato che i dinosauri rappresentano uno dei massimi successi evolutivi della storia dei vertebrati: essi produssero soluzioni biomeccaniche e fisiologiche mai sperimentate nei mammiferi, e generarono il gruppo di vertebrati attualmente al secondo posto come numero si specie -al primo stanno gli abbondantissimi e variegati pesci attinopterigi-: gli uccelli, che con almeno 10 mila specie sono più del doppio del bestiario mammaliano).
Tornando alle manipolazioni giornalistico-divulgative, l’esempio più stucchevole di questa visione distorta viene da recenti scoperte effettuate in Cina. Nel 2005 alcuni paleontologi cinesi descrissero una nuova specie di mammifero mesozoico, Repenomamus giganticus, vissuto circa 125 milioni di anni fa. Come indica il nome specifico, questa specie è la più grande tra tutte quelle di mammiferi mesozoici noti. Dato che la maggioranza dei mammiferi mesozoici era grande come un grosso topo (e considerando la taglia di altri vertebrati dello stesso periodo), il termine giganticus va preso con le dovute precauzioni: tradotto in misure assolute, R. giganticus era un animale lungo circa un metro e venti centimetri, con una testa di circa 16 cm. Per gli standard mammaliani del Mesozoico è notevole, anche se alquanto modesto rispetto ai mammiferi predatori cenozoici. Aldilà della taglia dell’animale, ciò che ha destato l’interesse dei giornalisti scientifici (di solito, purtroppo, poco interessati ai mammiferi fossili) fu il titolo col quale i ricercatori cinesi pubblicarono la loro scoperta sulla prestigiosa rivista Nature. Andando per gradi, alcune ossa di un secondo animale furono rinvenute all’interno del ventre dello scheletro di R. robustus (una specie simile ma lunga solo 2/3 di R. giganticus): la loro posizione non lasciava molte alternative all’interpretazione che fossero le ossa dell’ultimo pasto del Repenomamus. Una volta analizzate, si rivelarono quelle di un esemplare giovanile di Psittacosaurus, il più diffuso dinosauro erbivoro di quei tempi in Asia Orientale. Un adulto di Psittacosaurus non superava il metro e mezzo di lunghezza, quindi, a maggior ragione, uno giovane poteva benissimo essere il pasto (predato o come carogna, non sapremo mai) di Repenomamus. Questi i dati. Essi non hanno nulla di particolarmente clamoroso, dato che evidenziano le interrelazioni ecologiche tra prede e predatori di un ecosistema del passato e le somiglianze con quelli attuali: usando mammiferi e dinosauri attuali (uccelli) di taglie comparabili a quelle di Repenomamus e Psittacosaurus, il rapporto taglia tra predatore e preda è simile a quello tra una volpe e un grosso uccello da cortile, come un tacchino: il primo non disdegna minimamente i pulcini del secondo (se nessun cane o fattore si mette in mezzo).
Passando alla divulgazione giornalistica, ecco la manipolazione antropocentrica. Nello stesso numero di Nature che descriveva i Repenomamus è presente, nella sezione News & Views, un breve articolo divulgativo di commento della scoperta. Dopo il riassunto dei dati e delle implicazioni paleontologiche della scoperta, l’articolo dà una curiosa estrapolazione evoluzionistica dei dati:

“Hypotheses developed to explain the evolution of mammalian size often focus on
dinosaurs. The most frequently repeated speculation is that Mesozoic mammals
were forced to remain small by a combination of heavy predation pressure
from
dinosaurs and the saturation of ecological niches by large reptiles.”.

Questa ipotesi ha senso solamente se si assume “a priori” che i mammiferi debbano essere il gruppo “dominante” in qualunque contesto, e quindi è necessario invocare una qualche causa per la loro “inattesa” non-dominanza negli ecosistemi mesozoici: indipendentemente dal valore che si può dare a questa ipotesi, essa è chiaramente il riflesso di un pregiudizio pseudo-evoluzionistico. Difatti, nessuno sembra mai porsi il perché i rettili squamati (“lucertole” e serpenti) nel mesozoico non raggiunsero nemmeno loro la taglia degli arcosauri (coccodrilli e dinosauri): evidentemente, in questo caso il pregiudizio che guida è l’opposto di quello che sembra imporre la domanda per i mammiferi.
Il testo prosegue più avanti con:

“It seems likely that small dinosaurs experienced predation pressure from mammals. Indeed, in describing the diminutive Sinovenator changii, which lies
evolutionarily at the base of a lineage closely related to that of birds, Xu et al. (2002) express surprise that, although the avian lineage continued an evolutionary trend towards small size, closely related dinosaurian lineages became larger again”.

La prima frase è una semplice constatazione dell’evidenza emersa con Repenomamus, e come accennato prima, non implica nulla più di quanto suggerissero già le teorie delle dinamiche ecologiche, cioè l’esistenza di complesse catene trofiche negli ecosistemi, oggi come 125 milioni di anni fa.
Il resto è un’estrapolazione gratuita basata su un’incompleta (e forzata) interpretazione dei dati:
Sinovenator è un dinosauro teropode appartenente al gruppo più strettamente imparentato con gli uccelli. Oltre ad essere contemporaneo e “conterraneo” di Repenomamus, Sinovenator è uno dei più primitivi rappresentanti del gruppo dei troodontidi. La caratteristica interessante di Sinovenator (e di altri troodontidi primitivi) è che esso è più simile agli uccelli primitivi rispetto a quanto sembrino i troodontidi più evoluti: sia nella taglia che nella morfologia dello scheletro, esso ricorda molto gli uccelli primitivi come Jeholornis, vissuto nella stessa epoca, meno dei troodontidi più evoluti, come Troodon, che sono più grandi e con una morfologia meno “da uccello”. Ciò è semplicemente in accordo con il concetto di evoluzione: se due gruppi strettamente imparentati tendono a divergere morfologicamente nel tempo, ne deriva che i loro rispettivi rappresentanti primitivi si assomiglieranno tra loro più di quanto si assomiglino tra loro le forme successive di ambo i gruppi, entrambe più evolute (= più modificate rispetto alla comune condizione primitiva; vedere il post “Evoluto un corno”).
L’idea che gli uccelli mesozoici seguano un trend verso la riduzione della taglia è un semplicismo “riduttivo” della diversità avicola mesozoica: non tutte le specie note sono sempre più piccole della taglia dei loro antenati (ad esempio, gli euorniti Yanornithidi e gli enantiorniti Avisauridi sono uccelli mesozoici più grandi degli euorniti primitivi e degli enantiorniti primitivi).
La conclusione della citazione di sopra, infine, è l’obiettivo della mia critica, la dimostrazione dello sciovinismo mammaliano:


“Maybe these small dinosaurs got larger — or got off the ground — to avoid the
rapacious mammals”.
A parte l’assurdità di usare un legame preda-predatore tra un mammifero ed uno Psittacosaurus (dinosauro ornitischio ceratopso) per dedurre qualcosa sull’evoluzione di uccelli e troodontidi (dinosauri sì, ma saurischi paraviali, quindi morfologicamente ed ecologicamente ben diversi da Psittacosaurus), cosa implica l’affermazione appena riportata? Essa vede l’acquisizione di una taglia maggiore (nei troodonti evoluti) e lo sviluppo del volo arboricolo (negli uccelli) come prodotti dalla selezione operata dai mammiferi predatori sui piccoli teropodi. In pratica, assume che i comportamenti predatori di un numero ristretto di specie di mammifero siano sufficienti per indurre/produrre (e quindi spiegare) ampie trasformazioni in interi gruppi di altre specie (non bisogna dimenticare che di mammiferi mesozoici grandi come Repenomamus se ne conoscono pochi, e appare plausibile che queste specie “giganti” fossero effettivamente poche rispetto alla maggioranza dei mammiferi). Basare l’origine di due eventi macroevolutivi (fenomeni che si dispiegano in decine di milioni di anni) sull’estrapolazione di un solo evento di predazione individuale rinvenuto in un mammifero (per giunta esponente della minoritaria taglia “extralarge”) può solo spiegarsi con la nostra volontà di attribuire ai membri della nostra stirpe (in questo caso la nostra stirpe è l’intero Mammalia) un “valore” evolutivo particolare, una capacità di incidere sul resto della biosfera con una forza maggiore rispetto ad altre stirpi; ovvero si fonda su un pregiudizio di “superiorità” evolutiva. Dare credito a questa consolante visione dell’evoluzione sarebbe assurdo come darlo all’ipotesi (ugualmente “legittima”) di vedere nelle tracce di predazione da parte dei leopardi sui crani di Australopithecus africanus la causa che generò l’evoluzione umana! Nel secondo caso appare subito palesemente assurdo perché ci risulta più spontaneo cercare un complesso di cause (sopratutto cause attive e “nobili”) alla base della nostra evoluzione, mentre applichiamo tranquillamente una logica distorta (spesso a vantaggio dei nostri parenti/antenati) per l’evoluzione di altri gruppi.
Accenno solo le successive degenerazioni divulgative (in riviste scientifiche di serie B, e da lì in rete e nei telegiornali), nelle quali Repenomamus è citato addirittura come possibile causa dell’estinzione dei dinosauri (!): qui lo sciovinsimo mammaliano tocca la vetta, perché cerca di dare nuovamente credito ad un’illogica teoria del secolo scorso che vedeva nei mammiferi, predatori di uova (...mai provato che lo fossero), la causa dell’estinzione dei dinosauri (ipotesi che non reggeva allora, non potendo spiegare come mai uccelli, coccodrilli, squamati e tartarughe, che anch’essi depongono uova, si salvarono; ma che comunque non regge assolutamente oggi che sappiamo che i dinosauri praticavano intense cure parentali). Usare Repenomamus è ridicolo anche solo dal punto di vista cronoLogico: gli anni trascorsi tra la sua epoca (125 milioni di anni fa) e l’estinzione dei dinosauri mesozoici (65 milioni di anni fa) sono 60 milioni! Ovvero, seguendo la stessa logica, giacché io un giorno ho visto un gatto con un passero in bocca, allora ne devo dedurre che tra 60 milioni di anni gli uccelli si estingueranno per competizione coi mammiferi! (Piccola nota: Repenomamus appartiene ad una linea evolutiva di mammiferi che non ha rappresentanti viventi e che probabilmente si estinse decine di milioni di anni prima della fine del mesozoico). Credo che in questo caso per interpretare queste “mal-divulgate” sia sufficiente invocare l’ignoranza e la grossolanità di chi ricopia le notizie da altre fonti rimasticate, più che il pregiudizio sciovinista.
Per chi non fosse ancora convinto della mia argomentazione, il finale:
Nel 1998 è stato descritto un dinosauro teropode, battezzato Sinosauropteryx prima, il primo fossile di dinosauro (che non fosse un uccello) a conservare traccia di (proto)piumaggio, proveniente da strati quasi della stessa età di quelli del R. giganticus. Dato importante qui, nella cavità addominale di uno scheletro di Sinosauropteryx furono trovate ossa di uno squamato (una “lucertola”), anche in questo caso l’ultimo pasto dell’animale.
Come potremmo “interpretare” questa scoperta, in analogia con quella di Repenomamus? Dato che anche i primi serpenti (discendenti da squamati “lacertiliani”) risalgono al Cretacico Inferiore, potremmo citare Sinosauropteryx come prova che i serpenti si sono evoluti dalle “lucertole” per risposta adattativa all’intensa predazione dei dinosauri teropodi? Non ho dubbi che una simile ipotesi evolutiva (e la mente che la affermasse) sarebbe considerata molto ingenua e bizzarra, per non dire peggio. Essa è sì ipotizzabile, ma è praticamente indimostrabile e teoricamente insostenibile. Sinosauropteryx non è mai stato citato (giustamente) come prova che i dinosauri carnivori avrebbero potuto agire selettivamente sull’evoluzione degli squamati, per l’ovvia ragione che non è possibile fare estrapolazioni macroevolutive sulla base di singoli eventi alla scala individuale. Eppure, nel caso di Repenomamus è stato fatto.
Solamente la persistenza di obsolete teorie pseudo-evolutive (figlie di obsoleti sciovinismi pro-mammaliani) può spiegare le differenze nei modi di vedere/divulgare due prove paleoecologiche analoghe. Ed il perché di tale persistenza è totalmente a-scientifico: è un pregiudizio ibrido, che fonde un’impostazione “archetipica” (che dà un’intrinseca -e indimostrabile- superiorità adattativa a qualunque animale che sia etichettato come “nostro simile”, in questo caso un mammifero nel mesozoico) con un’irrazionale bisogno di giustificare la nostra esistenza anche in contesti nei quali non avrebbe senso cercarla.

Bibliografia utile:
Cheng et al. (1998). An exceptionally well-preserved theropod dinosaur from the Yixian Formation of China. Nature 391: 147-152.
Hu et al. (2005). Large Mesozoic mammals fed on young dinosaurs. Nature 433: 149-152.
Weil (2005). Living large in the Cretaceous. Nature 433. 116.
Xu, et al. (2002). A basal troodontid from the Early Cretaceous of China. Nature 415: 780-783.

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