mercoledì 17 dicembre 2008
Geniale! 2
martedì 16 dicembre 2008
Preghiera di un naturalista ateo
Preghiamo,
per tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta,
per l’anelito alla verità, nella sua accezione più matura, fondata sulla consapevolezza del limite, basata sulla rinuncia all’illusione, sostenuta dall’evidenza.
Preghiamo,
per tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta,
per la crescita della conoscenza, per la lotta all’ignoranza, alla superstizione, alla sofferenza, affinché tutti possano alzare lo sguardo, svelare il vuoto, e ridere.
Preghiamo,
per tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta,
per perpetuare la nostra esistenza, nella consapevolezza che la sola immortalità è nella memoria dei vivi, di chi conoscerà e comprenderà i segni del nostro passaggio.
Amen
giovedì 27 novembre 2008
mercoledì 19 novembre 2008
Elogio dei “Non lo so...”
Il precedente sondaggio ha riscosso un discreto successo, probabilmente anche in virtù della sua impostazione. Per non rubare meriti che non ho, chiarisco subito che le varie opzioni sono tratte dal libro di R. Dawkins “L’illusione di Dio”, alle quali ho apportato delle lievi modifiche per renderle adatte al sondaggio. Le opzioni originali erano:
1. Teista forte. 100% di probabilità di Dio. Nelle parole di
C. G. Jung, "io non credo, io so".
2. Probabilità molto alta ma non 100%. Un teista di fatto.
"Non posso saperlo per certo, ma credo fermamente in
Dio e vivo la mia vita nell'assunzione che lui esista".
3. Più del 50% ma non molto alta. Tecnicamente agnostico
ma propende verso il teismo."sono molto incerto,
ma tendo a credere in Dio".
4. Esattamente 50%. Completamente agnostico ed imparziale.
"L'esistenza e l'inesistenza di Dio sono esattamente
equiprobabili".
5. Meno del 50% ma non molto bassa. Tecnicamente
agnostico ma incline all'ateismo. "Non so se Dio esista
ma tendono ad essere scettico."
6. Probabilità molto bassa, ma vicina allo zero. Un ateo di
fatto."non posso saperlo per certo ma credo che Dio sia
molto improbabile, e vivo la mia vita nell'assunzione
che lui non esista."
7. Ateo forte. "So che non esiste nessun Dio, con la stessa
convinzione con cui Jung sa che ce n'è uno".
Ho illustrato il risultato del sondaggio mettendo i sette risultati in ordine di teismo crescente, dalla posizione “0”, coincidente con la “7” dello schema di Dawkins, fino alla “6”, coincidente con la “1” di Dawkins. Quindi, fate bene attenzione, il grafico qui sotto non segue l’ordine di Dawkins citato sopra, ma il suo inverso.
Per quanto siamo tutti concordi che nella realtà le posizioni siano molto più sfumate e graduali, le sette opzioni coprono bene la gamma di variabilità esistente (parentesi per chi ha dichiarato che non esisteva la sua opzione: in realtà, essa esiste: se dichiari di essere Dio, allora sai che egli esiste, e quindi voti “6”... il che è molto contraddittorio se detto dall’autore di “nonloso”!).
Sebbene il campione non possa dirsi rappresentativo della popolazione totale, qualcosa si può ricavare.
Innanzitutto, questo risultato conferma un’osservazione dello stesso Dawkins (il numero tra parentesi quadra indicano le posizioni nel grafico):
Sarei sorpreso di incontrare molte persone nella categoria [0], ma la includo per simmetria con la categoria [6], che è molto ben popolata. È nella natura stessa della fede che uno sia capace, come
Il sottolineato è mio.
In effetti, per quanto le posizioni “0” e “6” siano egualmente irrazionali, cioè basate su un atto di fede (presumo che nessuno dei votanti di quelle opzioni abbia delle prove dirette ed incontrovertibili a favore delle loro posizioni, perché in tal caso sarebbe interessante sapere quali siano), la “6” è ancora comprensibile per chi, come me, appartiene alle posizioni tra “1” e “5”, (ovvero, è consapevole di non saperlo con certezza ma nondimeno è in grado di prendere una posizione in base alle proprie convinzioni filosofiche, conoscenze e nozioni). Infatti, è plausibile che chi affermi con convinzione di sapere che Dio esista lo faccia sulla base di prove “positive” che egli ritiene di possedere (esperienza mistiche, prove ontologiche, ecc...). Ovviamente, per non essere ipocrita, chiarisco subito che ho dei fortissimi dubbi sull’effettiva validità di tali prove, che trovo assurde o palesemente infondate sul piano oggettivo: ma, nondimeno, le trovo sufficienti per giustificare le motivazioni soggettive di chi vota “6”. Al contrario, trovo la posizione “0” ancora più assurda, non tanto per il suo contenuto, quanto perché afferma di sapere che qualcosa non esiste! Come si fa a sapere che qualcosa non esiste? A meno di non ricavarlo razionalmente sulla base di un ragionamento per assurdo, la non-esistenza, in quanto affermazione negativa, non è affermabile con sicurezza, ma solo ipotizzabile sulla base dell’assenza di evidenze.
Esempio pseudo-idiota:
Io posso sapere che mio fratello esiste perché ne ho l’evidenza, ma, teoricamente, non posso affermare di sapere con la stessa certezza che non esista una mia fantomatica sorella... Come posso essere sicuro che mio padre, prima di sposarsi (o anche dopo, all’insaputa di mia madre) non abbia avuto qualche rapporto sessuale dal quale è stata concepita una mia sorella, che mi è stata tenuta all’oscuro? L’ipotesi, per quanto altamente improbabile sulla base della mia conoscenza di mio padre (ovvero: una tale eventualità mi pare aldilà delle capacità diaboliche di mio padre, a meno che egli non sia un grandioso genio del male...), non è impossibile, e quindi, non ha senso affermare che io so con certezza che la mia fantomatica sorella “Simona” non esista.
Pertanto, paradossalmente, le posizione “0” e “1” per quanto vicine, sono le più distanti: la prima è un’irrazionale affermazione di una negazione, la seconda è la consapevolezza che non esiste alcuna reale evidenza che possa farci affermare l’esistenza di Dio, e quindi la conclusione che non ha senso continuare ad affermare qualcosa in assenza di alcuna evidenza in suo favore.
Dato che questo post non discute l’esistenza o meno di Dio, ma solo la ragionevolezza o meno dei voti nel sondaggio, spero che non parta una discussione fuori tema...
venerdì 14 novembre 2008
giovedì 13 novembre 2008
Giornata mitica!
Oltre all'episodio a cui accennavo nel precedente post, ho anche avuto la fortuna di vedere in super anteprima un fossile stupendo, del quale, per ora, non posso dire altro. Inoltre, a coronamento di una giornata speciale, la serata è stata l'occasione per una rimpatriata del pueblo, che non si aggregava per cene eque e solidali dai tempi del trasloco! C'era pure piui!
Fra, mancavi solo tu (mannaggia l'intreccià)!
Giornate così sono rare.
lunedì 10 novembre 2008
Battezza questo dinosauro ucronico!
Qui sopra ho un ipotetico abelisauro semiacquatico vissuto 15 milioni di anni fa in un'altra dimensione spaziotemporale...
In analogia con quanto fatto da illustri blogger prima di me, chiedo ai miei lettori di suggerirmi un nome scientifico (in latino, ovviamente) con tanto di etimologia da dare a questa bestia...
Per favore, non chiamatela “cladistica”
La frase più famosa attribuita a Dobzhansky, uno dei fautori della sintesi neodarwiniana a metà Novecento, dice che in biologia nulla ha senso se non alla luce dell’evoluzione. Ciò è ancora più vero in paleontologia, dove il tempo, la dimensione nella quale si dispiega l’evoluzione, è fondamentale. Se accettiamo che l’evoluzione darwiniana è l’origine di una discendenza con modificazioni, allora l’evoluzionismo darwiniano non è altro che lo studio e la descrizione della serie di queste modificazioni nel tempo. Se il mondo in cui viviamo fosse un paradiso darwiniano ideale, allora potremmo osservare in natura l’intera gamma delle modifiche evolutive. Purtoppo, il mondo reale non è la realizzazione dei nostri sogni, e la natura ci mostra una serie discontinua e contraddittoria di morfologie, adattamenti e funzioni. Nondimeno, noi riconosciamo l’esistenza di un ordine sottostante la cacofonia delle forme ed il caleidoscopio degli adattamenti. Tale ordine ha un nome: filogenesi. Almeno per le forme di organismi complessi a riproduzione sessuata, noi assumiamo che le specie note non si distribuiscono a caso nello “spazio dei viventi”, ma tendono a collocarsi in regioni definite sulla base di reciproche affinità. Già Linneo, padre della sistematica biologica, aveva intuito ciò. Tuttavia, Linneo sviluppò il suo sistema naturale all’interno di un paradigma creazionista e fissista: le specie erano categorie immutabili e discrete, vere e proprie caselle gerarchizzate nelle ormai arcinote categorie linneane (specie-genere-famiglia-ordine-classe-tipo). La sistematica linneana, creata un secolo prima de “l’Origine delle Specie” di Darwin, è quindi una descrizione pre-darwiniana e non-evoluzionista della biodiversità. La sua persistenza dopo Darwin probabilmente è dovuta al fatto che, almeno a livello delle sole specie viventi, il sistema Linneano (creato appunto per catalogare le forme attuali, dato che Linneo non conosceva l’esistenza dei fossili) non risulta contraddittorio. Esiste qui una sorprendente analogia con la Fisica Newtoniana (cioè quella classica): sebbene sappiamo che essa non sia “vera” ed universale come ritenuto fino all’inizio del XX secolo (in quanto non è in grado di descrivere i fenomeni alla scala atomica e a quella cosmica con la stessa precisione che hanno invece la meccanica quantistica e la relatività einsteniana) essa conserva ancora una sua validità alla nostra scala di dimensione e velocità (nella quale non è possibile rilevare le sue imperfezioni). Analogamente, la sistematica linneana persiste perché va bene per le specie attuali (che osserviamo alla nostra scala temporale, nella quale i processi macroevolutivi sono praticamente inesistenti), ma è insoddisfacente per le scale evolutive, quelle della paleontologia. Quindi, se conveniamo che l’evoluzione biologica è l’ordine sottostante la molteplicità dei viventi è evidente che il sistema di classificazione linneano creato in epoca pre-evoluzionista non può essere un criterio soddisfacente per ricostruirla. Un ulteriore difetto del sistema linneano è che esso non stabilisce una procedura standard per l’istituzione delle categorie tassonomiche: generalmente, le categorie vengono istituite sulla base di numerosi criteri, spesso vaghi e soggettivi, che non possono essere valutati con un metodo quantitativo che permetta di “misurare” l’attendibilità di eventuali ipotesi in conflitto tra loro.
Il criterio da seguire per la classificazione dei viventi dovrebbe avere due requisiti per essere valido scientificamente: 1) dovrebbe essere coerente con i suoi scopi, cioè basarsi sulla stessa dinamica che noi attribuiamo all’evoluzione, ovvero, dovrebbe fondarsi sulla comparsa di discendenza con modificazioni; 2) dovrebbe seguire un protocollo di procedure formalizzate, così che possa essere soggetto allo stesso tipo di controllo di cui sono oggetto tutte le ipotesi scientifiche.
Tale criterio esiste, ed è alla base della sistematica filogenetica, il sistema di classificazione che da alcuni decenni sta sostituendo l’obsoleta gerarchia linneana.
La sistematica filogenetica è una teoria evoluzionista matura: come tutte le teorie scientifiche essa ha dei limiti di applicazione, oltre i quali non ha senso che sia utilizzata, ha una procedura standard ripetibile da più ricercatori indipendenti tra loro, ed un criterio quantificabile di controllo e verifica: non è quindi una “scienza mistica”, difficilmente testabile, come è invece la sistematica linneana, la quale, mancando di un metodo uniforme di produzione delle ipotesi, è sempre stata appannaggio di pochi “esperti” difficilmente smentibili (quest’ultimo è il solo motivo per cui, apparentemente ed erroneamente, la sistematica linneana appare ad alcuni più “solida”: perché ha sempre avuto un’impronta “dogmatica” ed indiscutibile, non certo perché fosse più coerente con i dati).
Nell’immagine, un esempio della differenza fondamentale tra ipotesi evolutive basate su un approccio linneano e quelle basate sulla sistematica filogenetica: entrambi i diagrammi rappresentano la stessa filogenesi, ed esprimono lo stesso concetto (la natura monofiletica dei dinosauri all’interno degli arcosauri), pertanto, non è il risultato che le distingue. La differenza sostanziale è data dal metodo. Il diagramma di Bakker & Galton (1974) propone alcuni gruppi la cui natura monofiletica non è chiara, né viene testata (“Thecodonts”, “Ornithopods”, “prosauropods”), inoltre, non è specificato quale grado di “robustezza” caratterizzi i vari raggruppamenti, né viene fornita una descrizione dettagliata dei caratteri utilizzati (il testo descrive sommariamente alcuni caratteri a sostegno dell’ipotesi, ma non mostra l’intera serie delle evidenze). Il diagramma di Benton (1999) propone la stessa filogenesi, ma nella quale tutti i gruppi inclusi sono strettamente monofiletici (i gruppi “ambigui” come i “tecodonti” sono stati suddivisi in sottogruppi distinti chiaramente monofiletici), tutti i caratteri inclusi vengono descritti nell’articolo e mappati (nella matrice in basso) così da permettere a chiunque di controllarli, e nell’albero vengono evidenziati i gradi di “robustezza” dei gruppi ottenuti (i numeri vicino ai nodi sono % di frequenza nei test di controllo che esprimono proprio tale “robustezza”). Inoltre, viene esplicitato su quali basi alcuni caratteri siano significativi (perché apomorfici) oppure no (perché plesiomorfici).
Cosa implicano queste differenze di approccio? L’albero di Bakker & Galton non è testabile da eventuali critici: data la sua impostazione, esso può solo essere “accettato o rifiutato” senza discussione (ovvero, lo si accetta/rifiuta solo in base alla fiducia/sfiducia nell’autorità di Bakker & Galton). L’albero di Benton è invece testabile da eventuali critici: i caratteri citati nella matrice possono essere controllati (sui fossili citati), la matrice può essere ripetuta e ri-analizzata più volte separatamente, le eventuali ambiguità nelle distribuzioni dei caratteri possono essere individuate e corrette: tale ipotesi è quindi accessibile ai ricercatori, i quali non l’accettano/rifiutano in base all’autorità di chi la propone, ma in base ai dati, ai metodi proposti ed ai risultati quantificabili.
Ripeto: non sono gli eventuali risultati a fare la differenza tra metodo linneano e filogenetico (infatti, nell’esempio i due diagrammi sostengono la stessa idea, cioè la monofilia di Dinosauria), ma i metodi usati. Ovvero, la metodica della sistematica filogenetica, fornendo ipotesi ripetibili e quantificabili, è molto più scientifica della linneana.
Per chiudere, se potete, evitate di chiamarla “cladistica”: termine erroneo e riduttivo nei confronti di una metodologia sistematica multidisciplinare, che non si limita (come invece pensano erroneamente alcuni critici) a costruire cladogrammi.
Bibliografia:
Bakker & Galton, 1974 - Dinosauri Monophyly and a New Class of Vertebrate. Nature, 248: 168-172.
Benton, 1999 - Scleromochlus taylori and the origins of pterosaurs and dinosaurs. Phylosophical Transactions of the Royal Society of London, 354: 1423-1446.
giovedì 6 novembre 2008
Invidia della mammella
Post Ultramitologico della settimana, che temo verrà frainteso da alcuni.
Credo che fu Freud a coniare il termine “invidia del pene” per interpretare alcuni aspetti della psicologia infantile femminile. Non sono psicologo, quindi sarò lieto di ricevere eventuali correzioni per quanto ho appena scritto. Ad ogni modo, in questo post non parlerò di psicologia infantile, o quasi...
L’oggetto del post sei tu, sì proprio tu, appassionato di dinosauri affetto da un’interessante modalità interpretativa che battezzo qui “Sindrome di Owen-Bakker” (SOB), o, più semplicemente, “invidia della mammella”.
L’invidia della mammella si manifesta con un ossessivo abuso di analogie mammaliane nella descrizione dei dinosauri. Tale “ossessione” ha ovviamente come corollario necessario un’intolleranza verso la filogenesi e le sue metodiche, dato che esse, rimarcando la natura ornitodirana (cioè di arcosauri con bauplan aviario*) dei dinosauri, contrastano vigorosamente le tendenze insite nella SOB. Al contrario, il “SOBista” ha una smodata passione per le analogie ecologiche. Tuttavia, e qui si evidenzia proprio la SOB, l’ecologia non viene citata in maniera corretta, ovvero rifacendosi a categorie ecologiche teoriche (quali, produttori, consumatori, simbionti, ecc...), bensì richiamando direttamente dei taxa di mammiferi attuali, quasi che questi ultimi siano gli “olotipi” delle categorie ecologiche. Io non avrei alcun problema ad accettare argomentazioni ecologiche basate su categorie generali, ma detesto fortemente le analogie mammaliane: esse sono fuorvianti, banali e semplicistiche, nonché prive di rigore scientifico (come spiegherò in fondo).
Breve carrellata di tipiche espressioni da SOBista:
Tyrannosaurus cacciava come una tigre, non come i leoni.
Spinosaurus pescava come un orso.
Gli abelisauri erano le iene del Cretacico.
Le mandrie di adrosauri, i bisonti dell’epoca...
I ceratopsi erano animali bellicosi, come i rinoceronti e i bufali.
Protoceratops era il cinghiale della sua epoca.
I sauropodi si spostavano in branchi, come gli elefanti.
Hypsilophodon, la gazzella del Cretacico.
Una muta di Deinonychus, simile ad gruppo di licaoni...
I branchi di ceratopsi probabilmente proteggevano i giovani formando un cerchio attorno a loro, come fanno i bisonti... (ammettiamo provvisoriamente che quanto detto sui bisonti sia vero).
Brachiosaurus era la giraffa del Giurassico.
I tyrannosauridi cacciavano in gruppi familiari, simili ai lupi.
Un cucciolo di dinosauro (Questa ultima è la più evidente forma di SOB: immaginate di dire “cucciolo di coccodrillo”, oppure “cucciolo di struzzo”, probabilmente sentirete quanto stonino, proprio come dire “pulcino di leone” o “avannotto di delfino”... eppure, per i dinosauri non si fa una piega!).
Provate a rileggerle alla luce della SOB: non vi paiono ora delle forzature semplicistiche?
Come si può paragonare un bipede oviparo di sei tonnellate (Tyrannosaurus rex) a quadrupedi vivipari di 250 kg (Pantera tigris e P. leo), e concludere che il primo è la versione cretacica di uno dei due secondi? Il solo fatto in comune è che sono carnivori. Basta tale analogia (per di più clamorosamente grossolana, dato che la maggioranza delle linee evolutive di vertebrati terrestri è carnivora) per giustificare un collegamento ecologico tra i due? A costo di risultare saccente, rispondo che una discreta conoscenza dei dinosauri porta a rispondere: NO! Le differenze fisiologiche, riproduttive, generazionali, popolazionistiche ed ecosistemiche sovrastano la grossolana somiglianza alimentare, e ci portano a bollare l’affermazione SOB come una misera semplificazione, ovvero, una banalizzazione inutile.
Da dove nasce l’invidia della mammella? Perché i SOBisti non si limitano a usare termini ecologici generali, “neutri”, per descrivere le ecologie dei dinosauri, invece di abusare di paragoni mammaliani più fuorvianti che necessari?
Penso che ciò derivi da due fattori, uno dei quali è all’origine dell’invidia della mammella.
Primo: L’ignoranza nei confronti dell’enorme mole di caratteri ornitici presenti in tutti i dinosauri, a differenti gradi di modificazione: tale ignoranza impedisce di apprezzare pienamente l’unità morfologica degli arcosauri, dai coccodrilli agli uccelli, passando per i crurotarsi basali, gli ornitischi, i sauropodomorfi ed i teropodi mesozoici.
Secondo: Il persistere di uno stereotipo archetipico risalente a Richard Owen, che nell’istituzione del termine “dinosauro” lo definì come una forma di rettile superiore “ricalcato” sui mammiferi. Ciò si riconduceva a sua volta alla semplicistica (nonché mitologica) Scala Naturae, che poneva il “modello rettiliano” ad un livello inferiore a quello “mammaliano”.
Se abbiamo abbandonato
*Per bauplan aviario intendo dire che il piano generale di organizzazione corporea di TUTTI i dinosauri è riconducibile allo stesso piano di organizzazione corporea che oggi osserviamo solo negli uccelli. Per quanto animali come Triceratops, Diplodocus ed un uccello possano sembrare differenti e inconciliabili dal punto di vista morfologico, le loro anatomie sono tutte riconducibili allo stesso bauplan (che chiamo “aviario” unicamente perché oggi tale bauplan è espresso solo negli uccelli, non perché voglio “forzare” un ceratopso ad essere un pollo gigante; un’espressione ugualmente valida è dire che gli uccelli hanno un bauplan pienamente dinosauriano): i dettagli nell’anatomia scheletrica, nel sistema muscolare, riproduttivo e polmonare che noi possiamo ricavare scientificamente dai fossili confermano questa interpretazione. Può sembrare assurdo per chi guarda questi animali con occhio di profano, ma un sauropode è più simile ad un piccione che ad un coccodrillo o ad un elefante.
mercoledì 5 novembre 2008
Falsificazionismo di coppia
Novembre, mese di anniversari rovesciati, l’ideale per parlare di procedure sentimentali...
Molti di noi si struggono inutilmente a causa di falsi valori, o perché indottrinati da mitologie, idealismi o, semplicemente, per l’effetto di errori madornali.
Un mito fonte di molte angosce, sopratutto tra adolescenti di ambo i sessi, giovani donne ed abruzzesi armati, è quello del “partner ideale”. (Ringrazio la metà eusarda del mio genoma per rendermi così poco incline agli ideali).
In questo post ultrazionalmente demenziale analizzerò i motivi per i quali l’idea del “partner ideale”, ed i metodi in base ai quali si ricerca tale chimera mentale, siano epistemologicamente fallimentari.
Karl Popper aveva visto giusto nel definire il criterio falsificazionista come più solido di quello verificazionista per l’identificazione di una teoria scientifica. Analogamente, ritengo che la ricerca del partner non debba essere guidata da un approccio verificazionista, bensì, su una sana pratica falsificazionista. Ovvero, nemmeno nell’ipotesi di trovare un individuo che presenti tutti i tratti presunti “ideali” (in base ai propri gusti) si può avere la certezza che tale persona sia quella giusta. Da ciò, inevitabilmente, nasce la delusione in tutti quelli che si affidano a tale metodo di ricerca.
L’approccio falsificazionista è più pratico e meno deludente: forse non si può trovare il partner “ideale”, ma sicuramente si scopre immediatamente chi non potrà mai essere tale partner ideale. (So che la soluzione di tutto il discorso è semplicemente l’abbandono dell’idea di “partner ideale”, peccato che per molti, plagiati dall’idealismo, tale soluzione sia assolutamente inconcepibile, impraticabile ed abominevolmente insopportabile... ma andiamo avanti col ragionamento...).
Esempio stupido n° 1 (ma basato su personaggi reali): La tua donna “ideale” è maggiorata? Forse nessuna donna maggiorata che incontrerai sarà mai veramente la tua donna ideale, ma sicuramente sai che una donna con una prima di reggiseno NON sarà la tua donna ideale.
Esempio stupido n° 2 (ma basato su personaggi reali): Il tuo uomo ideale è un calciatore? Forse nessun calciatore reale che incontrerai sarà mai veramente il tuo uomo ideale, ma sicuramente sai che un uomo che non gioca a calcio NON sarà il tuo uomo ideale.
Sarei tentato di estendere il metodo falsificazionista utilizzando non tanto le presunte caratteristiche ideali elaborate dalla mente, quanto le esperienze reali vissute... in tal caso, non posso sapere quali saranno le caratteristiche della mia possibile partner “ideale”, ma sicuramente so quali NON devono essere le sue caratteristiche, perché sono comparse più volte in passato (ad esempio, non dovrebbe essere nata all’estero, non dovrebbe avere un pessimo padre, non dovrebbe essere rigida mentalmente, non dovrebbe essere tennista, non dovrebbe essere ballerina, non dovrebbe tingersi i capelli con colori esagerati, non dovrebbe non sapere il significato della parola “surrogato”, non dovrebbe essere vegana/animalista...).
In realtà, tutte le donne a cui sto alludendo sono accomunate solamente da un unico tratto, il quale, quindi, probabilmente è il solo marcatore sicuro in base al quale capire in futuro se una donna non è quella giusta. Interessante che questo tratto non sia presente solo nelle mie esperienze passate, ma sia applicabile a tutte le esperienze passate di tutti, sia uomini che donne (e quindi, permette di elaborare una Legge Generale, la quale definisce il tratto universale in base al quale tutti possono riconoscere subito se un potenziale partner sia o meno quello “ideale”...).
Qual è questo tratto?
Rullo di tamburi...
Legge sull’Esistenza del Partner Ideale
Assioma di partenza: Il tuo partner ideale sta con te (se non avesse questo attributo, non sarebbe il tuo partner ideale, ma quello di altri).
Applichiamo l’approccio falsificazionista per escludere quelli che non possono essere i tuoi partner ideali. Dato che il partner ideale deve avere, tra le proprie caratteristiche, quella di stare con te, se ne deduce che tutte le passate esperienze, essendo finite, sono con persone che non stanno con te, e quindi non sono la condizione ideale. Pertanto, tutte quelle esperienze saranno accomunate da un qualche tratto che necessariamente le rende non-ideali. L’unico tratto in comune a tutte le tue esperienze passate è che uno dei due partner sei tu. Perciò, lo stare con te è l’attributo che rende il partner non ideale. Ovvero: il tuo partner ideale non può necessariamente stare con te.
Ma ciò contraddice l’assioma di partenza.
Conclusione: il partner ideale non esiste.
mercoledì 29 ottobre 2008
Concorso: dà un nome ai nuovi personaggi del seguito di "EdF"!
Voglio rendere il battesimo di questi nuovi personaggi "democratico"... Accetto suggerimenti sulla base di questi vincoli:
-Il nome deve essere formato da 3 parole, con la seconda e la terza unite da un trattino.
-Il nome deve essere "neutro", non deve avere un'immediata identificazione di genere (maschile o femminile).
-Il nome non deve essere esistente, ma può essere basato su riferimenti alle culture africane, indo-cinesi e polinesiane.
venerdì 24 ottobre 2008
Ventisei Ottobre di 6012 anni fa...
mercoledì 22 ottobre 2008
Antenati algebrici ed antenati geometrici
Questo post ultrazionale nasce come sintesi di due post distinti (e nati indipendentemente uno dall’altro, sebbene chiaramente emersi da un substrato culturale comune) di Theropoda e di Geomythology: è quindi un post pienamente ultramitologico.
I post fratelli che cito sono Galleria degli Antenati - Prima Puntata: Palaeoraptor primus e Tecodonti piumati, protouccelli immaginari e il solito Heilmann. Entrambi parlano di ipotetici antenati degli uccelli, il primo ricavandolo da un’analisi filogenetica in fase di elaborazione, il secondo estraendolo dalla gloriosa paleontologia primo-novecentesca. Per quanto accomunati dal tema, essi fanno riferimento a due differenti tipologie e topologie creative, due distinte procedure di ricostruzione/simulazione di creature evoluzionistiche, figlie di due distinte filosofie storiche.
Se la vostra visione dell’evoluzione è fortemente analogica, ricalcata su un modello ontogenetico, lineare, aprioristicamente progressivo e graduale, allora il vostro metodo di simulazione dell’antenato (MSA) sarà probabilmente di tipo algebrico (termine che sto inventando qui).
Un MSA algebrico si basa sulla seguente equazione:
Ipotetico Antenato Intermedio = 1/2(Antenato remoto + Discendente)
Esempio (già citato in un passato post geomitologico): “Proavis” = 1/2(Euparkeria+Archaeopteryx).
Altro esempio (pressapoco coevo di “Proavis”, e non per caso, in quanto figlio dello stesso paradigma): Uomo di Piltdown = 1/2(scimmia+uomo).
Il MSA algebrico è ancora, probabilmente, il metodo principale di interpolazione mentale evoluzionistica (di creazione di “anelli mancanti”... notare l’aggettivo carico di attesa) in uso dagli interessati all’evoluzione. Il MSA algebrico implica una visione iper-olistica degli organismi, intesi come monadi dinamiche capaci solamente di traslazioni lineari in un morfospazio animale relativamente semplice, un euclideo piano bidimensionale delle forme viventi.
Il MSA algebrico permette anche ciò che in una disciplina storica in teoria dovrebbe sempre essere evitato (ma che in realtà è l’ambizione di molti), ovvero, permette di elaborare una (rozza) teoria storicistica dell’evoluzione. Come? Basta applicare la formula, adattando i termini, per ricavare IL FUTURO!
Ovvero, se poniamo la condizione attuale al posto di Ipotetico Antenato Intermedio, possiamo ricavare il discendente (che pertanto sarà un discendente futuro):
Discendente futuro = 2(Condizione attuale) - Antenato Remoto.
Cosa significhi questa formula, lo sa solo chi ancora dà valore al metodo del MSA algebrico (i vari Dixon e zoo-futurologi).
L’altro metodo di ricostruzione di ipotetici antenati, metodo che trovo più plausibile, è basato su una concezione evoluzionistica non-lineare, ramificata e modulare. Tale approccio, non-olistico, bensì riduzionista, implica la rinuncia all’interpolazione delle linee filetiche per ricavare le fasi intermedie. Questo approccio, di stampo filogenetico, afferma che un antenato ipotetico è identificabile dalla combinazione di caratteri anatomici esistente in ogni nodo di un diagramma filogenetico. Questo approccio, che determina un antenato ipotetico da nodi di intersezione tra segmenti evolutivi, lo battezzo MSA geometrico.
Esempio: Archosauriformes = Sinapomorfie condivise da Archaeopteryx e Euparkeria.
Notare che il MSA geometrico non colma lacune tra i taxa coinvolti nell’elaborazione, bensì determina condizioni morfologiche pre-esistenti i due taxa. Da questo si ricava che il MSA geometrico NON può essere usato per “prevedere” l’evoluzione futura. Inoltre, questo metodo non impone di “attribuire” a priori uno status di “antenato remoto” ad una delle due forme scelte nella procedura, le quali sono “equiderivate” rispetto all’antenato che si ricava: questo metodo è pertanto meno “soggettivo” del MSA algebrico. Infine, aspetto più importante, questo metodo fa delle previsioni suscettibili di verifica più rigorosa che l’altro.
Esempio: tutti possono convenire che “Proavis” sia intermedio tra Euparkeria e Archaeopteryx. Ma COME era intermedio? Aveva il corpo del primo con la pelle del secondo? Oppure il contrario? Oppure aveva la parte anteriore del corpo da Archaeopteryx e quella posteriore “ancora” da Euparkeria? Insomma, appare evidente che con il MSA algebrico si può elaborare un numero pressoché infinito di “antenati intermedi”, spesso in maniera molto soggettiva. Al contrario, dati i due taxa di partenza sufficientemente completi, esiste un solo (o comunque un numero molto basso) di possibili antenati comuni ricavabili con il MSA geometrico: quello/i avente/i nella propria diagnosi la lista delle sinapomorfie condivise dai due taxa ma senza alcuna delle autapomorfie di ciascuna delle due linee prese separatamente.
lunedì 20 ottobre 2008
Archetipi, Baupläne ed altre inutilità zoologiche - Seconda parte
Nella seconda parte di questo post doppio (potete leggere la prima cliccando sul titolo qui sopra) spiego perché il tentativo dei creazionisti di arroccarsi sopra la Macroevoluzione per cercare di salvarsi dal Diluvio darwiniano è vano come la loro credenza che due esemplari di tutte le specie di animali d’acqua dolce possano essere alloggiati per un anno all’interno di un’arca di legno e bitume a zonzo per l’oceano...
Anche in questo caso, partirò da un esempio, questa volta fantascientifico.
Immaginiamo che io faccia amicizia con un’intelligenza aliena di tipo elettronico, un essere in stile “robot”, che è generato da un processo di assemblaggio meccanico di parti distinte alle quali viene inserito un software avente le stesse prestazioni della mente umana. Un giorno decido di presentare questo “amico” sui generis a mia madre. Siccome il suo processo di generazione non prevede l’esistenza di genitori, mi affretto a spiegargli cosa sia una madre. Per avvicinarmi alla sua “concezione” di procreazione, gli spiego che una madre è l’individuo all’interno del quale avviene il processo di assemblaggio preliminare delle mie componenti. Il robot annuisce, dicendo di aver compreso. Tuttavia, nel momento in cui gli presento mia madre, egli si volta verso di me con aria seccata, esclamando: “Mi hai mentito! Non è possibile che un essere delle tue dimensioni possa essere stato assemblato all’interno di quel altro!” (Per chi non lo sapesse, mia madre ha un volume corporeo inferiore al mio...). La storia è chiaramente idiota, e tutti sappiamo qual è l’errore del robot: ritiene che l’intera complessità attuale del sottoscritto derivi da un solo processo di assemblaggio, un atto creativo capace di produrre un adulto umano completo. Ovviamente, tale atto non può compiersi in un utero materno, ma è il risultato di un processo protrattosi per decenni, e del quale il robot sta osservando solo il risultato finale.
L’obiezione creazionista nei confronti dell’evoluzione delle grandi categorie tassonomiche è simile. Essa ritiene che nessun processo microevolutivo possa produrre la complessità dei vari tipi zoologici (insetti, molluschi, brachiopodi, vetrebrati, ecc...), i quali, pertanto, possono essere spiegati solamente con una serie distinta di atti creativi, analoghi all’assemblaggio del robot, creato “adulto” in un solo evento. Per i creazionisti, le discontinuità morfologiche tra, ad esempio, insetti e molluschi, o tra vertebrati ed echinodermi, sono “sostanziali”, irriducibili ad un processo evolutivo graduale protratto ad una scala minore di quella delle grandi categorie tassonomiche.
L’errore sta nell’attribuire alle grandi categorie tassonomiche lo status di enti discreti, alla pari di elementi chimici (i quali, ad essere precisi, sono anch’essi il risultato dell’assemblaggio di oggetti di una scala più bassa).
In realtà, applicando razionalmente i dati a noi noti, quella che per i creazionisti pare una “complessità irriducibile” è solamente un effetto della Storia. Ovvero, le discontinuità che fungono da “limiti invalicabili” tra i phyla sono il risultato della sommatoria di numerosi eventi di estinzione che hanno eliminato numerose forme “intermedie”, impedendo loro di sopravvivere fino ad oggi. L’effetto di tale “discontinuità contingente” sono appunto le grandi categorie tassonomiche ed i baupläne, che non esprimono “modelli archetipici ancestrali”, bensì solamente le “isole di sopravvivenza” in un oceano zoologico fortemente segnato dalle estinzioni.
Questi due esempi mostrano come l’occhio critico dei creazionisti sia miope nei confronti di alcune zone della zoologia ed invece molto sensibile verso altre.
I pesci teleostei sono il gruppo di vertebrati acquatici di maggiore successo, con circa 20 mila specie descritte. La variabilità morfologica all’interno dei teleostei è enorme, ben più grande di quella che separa una rana da un cavallo. Tale variabilità mostra tantissimi modelli adattativi, i quali spesso esemplificano le gradazioni evolutive tra morfologie apparentemente distanti ed “inconciliabili”. Di conseguenza, all’interno dei teleostei è difficile trovare prove della “irriducibile complessità” tanto cara ai creazionisti. Perché tale discontinuità è assente? La risposta è nella storia evolutiva dei teleostei: da 100 milioni di anni questo gruppo è in espansione continua, e l’estinzione non ha “falciato” in maniera selettiva determinate linee evolutive rispetto ad altre: quasi tutti i gruppi comparsi durante la storia dei teleostei persiste ed è ampiamente diversificato. Ovviamente, all’interno di un tale caleidoscopio anatomico è difficile trovare obiezioni credibili all’evoluzione darwiniana, la quale è invece una spiegazione soddisfacente di una simile variabilità morfologica.
Il secondo caso che cito mi è particolarmente caro (e forse tendo ad abusarne per fare esempi...). Gli uccelli sono il gruppo di vertebrati terrestri di maggiore successo, con oltre 10 mila specie viventi attualmente. L’anatomia degli uccelli è talmente particolare e “differente” da quella degli altri vertebrati terrestri che non sembra possibile farla derivare per evoluzione da altre morfologie, ad esempio da quella dei rettili. Un essere simile ad una lucertola, che ha la pelle a squame, è quadrupede, striscia, ha sangue freddo, non ha sacchi aerei, ecc..., come potrebbe evolvere secondo le presunte meccaniche darwiniane per diventare un animale bipede e volante, a sangue caldo, pennuto, con becco, ecc...? Ovviamente, vista in questa luce, la teoria darwiniana pare terribilmente improbabile e contorta.
L’anatomia degli uccelli sembra così bizzarra solo per motivi di contingenza storica, e non perché frutto di qualche irriducibile creatività divina: a differenza di quella dei singoli gruppi di teleostei, essa è l’unica sopravvissuta di un massiccio evento di estinzione che ha spazzato via dalla nostra osservazione diretta la lunghissima serie di morfologie intermedie che, un tempo, colmava tutto lo “spazio morfologico” tra uccelli e, ad esempio, coccodrilli. Se non ci fosse stata l’estinzione della fine del Cretacico che ha cancellato tutti i parenti degli uccelli, e se non ci fosse stata l’estinzione della fine del Triassico, che ha cancellato tutti i parenti dei coccodrilli, noi oggi avremmo l’intera gamma della variazione morfologica che va dal colibrì al caimano senza alcuna “irrisolvibile discontinuità”, esattamente come quella che osserviamo tra i pesci teleostei (che, faccio notare ancora, hanno al loro interno una variabilità anatomica ben più alta di quella che separa uccelli e coccodrilli... Purtroppo, dubito che gli antievoluzionisti abbiano conoscenze zoologiche tali per apprezzare questi fatti).
Quindi, in conclusione, il darwinismo, proprio in virtù della sua alleanza con la contingenza del Tempo Profondo (un concetto ampiamente confermato dai dati della fisica, astronomia e geologia, ma che è inconcepibile ed inaccettabile da chi crede che l’Universo esista da solo 6000 anni), ha tutti i mezzi per spiegare l’esistenza e la discontinua variabilità dei viventi SENZA AVERE BISOGNO DI ALCUNA SPIEGAZIONE SOPRANNATURALE.
Poi sta alla capacità razionale delle persone volere o no accettare tale spiegazione... ma questo è un altro discorso...
Il frustrante successo della frustrazione
Un’opinione diffusa ma sbagliata dell’evoluzione è che essa porti al “miglioramento” degli organismi. Il ragionamento di partenza di questo mito sull’evoluzione è l’idea che qualsiasi modifica, anche minima, nelle caratteristiche dell’organismo che ne migliorino la sopravvivenza conferisce un vantaggio riproduttivo, il quale fa aumentare il numero dei portatori di tale modifica nella generazione successiva, ecc... Anche se questo ragionamento è corretto, ciò non implica che sia valido a rovescio. Ovvero, non è detto che un carattere che porta un danno ad un individuo sia necessariamente eliminato dalla selezione naturale. Anzi, in questo post presento un caso nel quale un carattere chiaramente dannoso per la vita di chi lo possiede è evolutivamente vantaggioso (in quanto aumenta le probabilità di avere un successo riproduttivo).
Sta emergendo sempre più la consapevolezza che quello che chiamiamo “Io” sia in realtà una pluralità di moduli neurologici in simbiosi-competizione. Molti aspetti apparentemente paradossali della mente umana sono più comprensibili interpretando il cervello come un ecosistema neuronale, piuttosto che come una monade indissolubile sede di un fantasma chiamato psiche. In particolare, la consapevolezza che il cervello umano attuale sia un assemblaggio seriale di differenti stadi evolutivi, probabilmente gerarchizzati a svantaggio delle parti più recenti (le linguistiche-razionali-consapevoli, rispetto alle emotive-viscerali-inconsapevoli) ci induce a interpretare in un’ottica evoluzionistica alcuni aspetti patologici della nostra psicologia.
Le frustrazioni sono uno degli aspetti più diffusi della natura umana. Il conflitto tra desideri potenziali e possibilità attuali spesso genera sofferenza interiore. Ciò che è paradossale, è che spesso tali desideri non corrispondono a effettivi bisogni vitali immediati. Si può benissimo sopravvivere anche senza la gloria, la fama, il successo, il sesso, il lusso. Anzi, spesso si vivrebbe meglio se non ci fosse l’ossessione di appagare tali “bisogni”. Non è un caso che buona parte, se non la totalità, delle esigenze che ho citato abbiano a che fare con la sfera riproduttiva. La riproduzione è la base dalla quale è emersa la sessualità (base che poi, nella civiltà moderna, è stata progressivamente abbandonata, anche se non definitivamente), la quale fa da catalizzatrice e fulcro per il bisogno di potere, fama, successo, a loro volta fondamento per il lusso e la gloria. Un’intera rete di esigenze non vitali ha come fondamento la riproduzione (ripeto, le necessità vitali immediate di un individuo sono la nutrizione, la termoregolazione, la salute e la difesa). Pertanto, dato che qualsiasi caratteristica che aumenti le probabilità riproduttive è selezionata positivamente dal punto di vista evolutivo, è evidente che il sentimento della frustrazione ha un indubbio vantaggio evolutivo per l’individuo portatore di tale sentimento, inducendolo massicciamente a cercare di appagare tutte quelle esigenze derivate dalla riproduzione. Al contrario, l’assenza di frustrazione porta ad essere appagati solamente per le esigenze vitali primarie (le quali in genere sono segnalate da sentimenti più semplici ed arcaici, come la fame, la paura, il freddo e la rabbia), riducendo (rispetto ai frustrati) l’impegno per la riproduzione.
Morale della favola: quando saremo veramente felici ci estingueremo.
venerdì 17 ottobre 2008
Creazionismo "parafrasato"
Da un recente sondaggio, risulta che il 53% degli americani crede che i Sumeri abbiano inventato la colla 1000 anni prima del Big Bang.
giovedì 16 ottobre 2008
IL DNA NON E' ACQUA
lunedì 13 ottobre 2008
Il tirannosauro, il DNA proteico e l’unicorno
Una volta, chattando con un amico (persona intelligente e laureata in disciplina scientifica) saltò fuori un discorso sulla meccanica quantistica. L’amico, non so quanto seriamente, bollò alcune implicazioni paradossali della meccanica quantistica come “aria fritta”. Come gli feci notare subito, non aveva alcun diritto di etichettare così una disciplina scientifica frutto di decenni di intensi studi di grandi ricercatori, nonché base per moltissime applicazioni delle nostra tecnologia (tra cui l’informatica e l’elettronica grazie alle quali stavamo chattando). Conosco bene il mio amico e so che la sua battuta era estemporanea... tuttavia, detesto tutti quelli che, pur non avendo alcun titolo per poter esprimere un’opinione ponderata in una materia nella quale non sono sufficientemente competenti, si sentono autorizzati a criticare discipline non loro. Credo che un rispettoso silenzio, o la candida ammissione di non essere competenti in materia, sia la sola reazione che dovrebbe fare qualsiasi persona intelligente nei confronti di ambiti che non gli sono noti sufficientemente. In fondo, nessuno ormai può essere un esperto in tutti i campi, quindi dovrebbe sempre essere umile nei confronti delle altrui competenze.
Noto che il più delle volte le critiche sono rivolte verso quei risultati che vanno contro “il senso comune”. L’idea che i rapporti di causalità vengano meno alla scala quantistica, oppure che lo spazio-tempo sia descrivibile tramite una geometria non-euclidea, sono visti come risultati così contrari al senso comune, così in discordanza dalla nostra intuizione ed immaginazione, così distanti dall’ovvietà, da essere interpretati come necessariamente “sbagliati”. Un meccanismo psicologico di rimozione dell’incomprensibile porta inevitabilmente alla critica, sebbene non si abbia alcuna base linguistica, metodologica e strumentale per poter argomentare una critica degna di ascolto. In fondo, molte delle critiche al concetto di evoluzione nascono da questa stessa commistione di ignoranza, incomprensione e paura. La paura, in questo caso, è che vengano meno le consolanti fondamenta dell’ovvietà, l’ovvietà di un mondo stabile e confortevole, nel quale noi siamo “a casa”.
Spesso, però, le critiche hanno una base molto più grossolana e mediocre. L’ignoranza, mista all’arroganza, crea il dogma inconscio, la categoria mentale chiusa ed inviolabile. Questo dogma mentale, tipico delle posizioni superate che non vogliono essere abbandonate, è il primo passo per la trasformazione del dato scientifico in oggetto mitologico (nonché, spero, materia grezza per futuri post su Geomythology).
Mettiamo il caso che io sia un appassionato di genetica vissuto a metà del XX secolo...
Sono cresciuto nella fase più entusiasmante delle ricerche sulla natura del materiale genetico, tuttavia, non ho le basi scientifiche per essere un vero ricercatore. Ma ce la metto tutta per essere aggiornato! Quando ho iniziato a seguire questa materia, l’idea dominante era che il materiale genetico fosse di natura proteica. Spesso, non per colpa ma per cause esterne a me, non ho tempo per aggiornarmi sui progressi della materia che mi appassiona, e spesso mi accorgo di restare indietro rispetto alle novità. Col tempo, scopro che il linguaggio in uso tra i ricercatori sta cambiando, adattandosi a nuove metodiche e concetti, ed io non riesco sempre a seguirne gli sviluppi, i quali, man mano che passa il tempo, si fanno sempre più distanti dall’immagine che ho di tale materia. Noto con dispiacere che la mia immagine della disciplina che mi appassiona, già grossolana perché frutto di materiale divulgato, si fa sempre meno conforme all’effettivo stato della scienza, e, pertanto, sfuma sempre più in una favola consolatoria alla quale faccio riferimento più per necessità (è l’unica conoscenza che mi rimane, e non voglio rischiare di perdere pure quella) che per scelta. Un giorno scopro che uno dei capisaldi della mia immagine mentale della genetica era un errore! Come? Il materiale genetico sarebbe una molecola non proteica? Chi sono questi che sostengono che i geni sono fatti di acidi nucleici? Assurdo... io SO che i geni sono fatti di proteine! Cosa ne sanno questi qua? Come si può stravolgere la genetica così? Si tratta sicuramente di una banda di esagitati che cerca di farsi pubblicità con nuove idee bizzarre... Come dite? La nuova ipotesi sta avendo numerose conferme? Come dite? Numerose branche della genetica, prima distinte, ora si armonizzano bene alla luce dell’ipotesi del... come avete detto che si chiama? DNA? Mah... io non ho capito bene di cosa si tratti. Sì, ma forse il DNA è una proteina, un po’ strana, ma sempre una proteina... No? Sicuri? Ma che ne sapete voi delle proteine? Le proteine non spiegano la genetica? Come sarebbe? Chi siete voi per dirlo? Beh, è chiaro che adesso il DNA diventerà una religione... eh, sì, lo sapevo che finiva così. La vostra è una religione... non fate più scienza! Io faccio ancora scienza! Ah... le care vecchie ricerche, loro sì che parlavano un linguaggio chiaro... Adesso tutta la genetica si spiegherebbe senza proteine... no, non lo posso accettare! La vostra non è scienza! Cosa dite? Presuntuosi! Sì, ecco cosa siete: io mi rifiuto di ascoltare le vostre argomentazioni! No, io resto alle proteine... Sì, perché il DNA è una proteina! Siete voi che non capite...
Finale nel quale mi chiudo in camera abbracciando un cuscino a forma di proteina.
Questa storiella pseudo-joyceana, un po’ grottesca, anche se coerente con alcune fasi dello sviluppo della genetica a metà del novecento, esemplifica bene molti casi di appassionati di una disciplina scientifica che, per motivi vari, non adeguandosi ai progressi della loro amata disciplina, restano ancorati ad una visione superata, spesso assumendo un atteggiamento intollerante nei confronti delle nuove espansioni della ricerca.
Vedo questo fenomeno nella strana persistenza di un’iconografia scientifica rivelatasi errata, smentita dai dati e, pertanto, priva di fondamento. Parlo dell’immagine di un organismo fossile illustrata per quasi un secolo, un essere che non esiste realmente, se non come teoria interpretativa di alcuni dati geologici, eppure, ormai (purtroppo) così sovraccaricato di significati extrascientifici da essere ormai noto più come un fatto reale (che non è) piuttosto che solamente come un termine paleontologico: Tyrannosaurus rex.
Tyrannosaurus rex NON è un animale reale, dato che non esiste alcun esemplare vivente sulla Terra appartenente a tale specie. Tyrannosaurus rex è il nome scientifico attribuito ad una serie di fossili interpretati come appartenenti ad una specie di animale estinto da decine di milioni di anni. Questo è Tyrannosaurus rex. Esso sui basa su dati paleontologici, ed ha pertanto una validità in quanto teoria paleontologica, non come animale reale.
Nessuno può alterare le informazioni presenti nei fossili attribuiti a Tyrannosaurus rex, e pertanto, nessuno può obiettare, ad esempio, che Tyrannosaurus rex sia un animale con finestra mascellare, piede arctometatarsale, ecc... Ovviamente, questo DATO può essere esteso tramite delle interpretazioni iconografiche, le quali però NON sono dei dati.
Ad oggi (almeno, per quanto ne so io...) non esiste alcun fossile di Tyrannosaurus rex che conservi tracce di pelle. Pertanto, l’aspetto esteriore di questo animale in vita è puramente ipotetico e deve essere basato su interpretazioni indirette deducibili, ad esempio, da fattori di parentela con specie per le quali sia noto il rivestimento corporeo, oppure da eventuali argomentazioni zoologiche generali, quali il metabolismo, l’ecologia o la fisiologia. Tuttavia, ripeto, in assenza di prove dirette incontrovertibili, esse restano interpretazioni, non fatti. (In rete circola la notizia, risalente a 12 anni fa, di tracce di pelle fossile di tyrannosauro. Tuttavia, tale traccia non è associata direttamente a ossa di tyrannosauro, e mostra una tessitura stranamente simile a quella di un altro tipo di dinosauro, un hadrosauro: pertanto è dubbio se tale attribuzione sia corretta. Il fatto che da allora questa traccia di pelle, che essendo di tyrannosauro susciterebbe sicuramente molto interesse, non sia stata descritta in alcun articolo ufficiale porta a credere che non sia più attribuita ad un tyrannosauro).
Per quasi un secolo, Tyrannosaurus rex è stato rappresentato con una pelle squamosa, “da rettile”. Ciò era plausibile, in base a ragionamenti filogenetici, in quanto si presumeva che Tyrannosaurus rex avesse lo stesso tegumento dei suoi parenti ancora vivi, in particolare dei coccodrilli o delle lucertole, tutti con pelle squamata. Tuttavia, negli ultimi venti anni, una mole enorme di dati ha dimostrato che gli animali viventi più strettamente imparentati con Tyrannosaurus sono gli uccelli, e non i coccodrilli. Questa nuova ipotesi, oltre a spiegare moltissimi aspetti dell’anatomia di Tyrannosaurus, solleva il dubbio sul fatto che esso fosse squamato, anche se non costituisce un motivo per dire che l’ipotesi “squamata” sia scorretta. Tale dubbio, in ogni caso, è stato accresciuto con la scoperta che molti animali imparentati con Tyrannosaurus e con gli uccelli erano rivestiti da piumaggio. Infine, sono giunte le prove che la pelle di un parente stretto di Tyrannosaurus aveva un rivestimento piumoso simile a quello degli uccelli: ciò ci porta con sicurezza a scartare l’ipotesi che la pelle di Tyrannosaurus fosse squamata, dato che essa, per conformarsi alla teoria filogenetica più plausibile che disponiamo ora, implicherebbe un processo evolutivo di “ritorno delle squame” che non è sostenuto da alcun dato (Ovvero, forse un giorno ci saranno prove a sostegno del “tirannosauro squamato”, ma fino ad allora, l’assenza di squame è l’ipotesi più plausibile a nostra disposizione, e quindi non ha molto senso affermare scientificamente la presenza di squame nella ricostruzione di quel animale).
Pertanto, in assenza di tracce dirette di pelle di Tyrannosaurus, siamo nondimeno indotti ad affermare che esso NON aveva un rivestimento squamato da “rettile”. Inoltre, è plausibile, anche se va verificato, che esso fosse rivestito con un piumaggio filamentoso simile a quello rinvenuto in altri suoi parenti fossili. Altra possibilità, basata con analogie con i mammiferi, è che esso non avesse alcun rivestimento tegumentario, tuttavia, ciò implica assumere che l’evoluzione del tegumento nei mammiferi sia un buon analogo per Tyrannosaurus (assunzione da dimostrare).
Riassumendo:
- Tyrannosaurus è, per definizione, un’ipotesi paleontologica basata su fossili; non è un essere vivente del quale sia possibile fare esperienza diretta (notare che la parola “vivente” è un participio presente, e denota l’attualità della vita, non la sua deduzione a posteriori).
- I fossili di Tyrannosaurus attualmente non ci dicono nulla sul suo tegumento.
- L’interpretazione attuale più plausibile è che Tyrannosaurus, in vita, NON avesse squame (attenzione, non sto affermando alcunché su eventuali altri tegumenti, ma sto solo negando un'ipotesi, quella "squamata", rivelatasi in contrasto con i dati noti ora e con le più corrette metodiche di ricostruzione filetica).
- Pertanto, affermare che Tyrannosaurus fosse squamato non è un discorso scientificamente corretto.
- Quindi: continuare ad affermare che Tyrannosaurus fosse squamato implica riferirsi ad un oggetto non-scientifico, quindi, per la definizione del punto 1, non a Tyrannosaurus.
Nonostante tutto questo ragionamento, uno zoccolo duro di “nostalgici della squama”, pur non avendo più alcuna base per sostenere l’iconografia superata del “tirannosauro squamato”, ha deciso di conservarla, creando, di fatto, un nuovo essere mitologico.
Il “tirannosauro squamato” è un animale mitologico: per quanto sia ricalcato da un fossile, è una creatura fantastica, mai esistita realmente sulla Terra.
Come l’unicorno si rivelò essere un essere mentale creato nel Medioevo sulla base di un’errata interpretazione di resti reali, così il “tirannosauro squamato” è un essere mentale creato nel XX secolo sulla base di un’errata interpretazione dei dati reali.
Provate a rileggere la storiella di prima, sostituendo i termini genetici con gli analoghi paleontologici... e ritroverete certe discussioni sulla paleontologia attuale, sulla cladistica, sul tegumento di Tyrannosaurus...
A questo punto, la domanda veramente interessante è: perché alcuni si ostinano a mantenere vivo un mito rivelatosi falso? Perché un’ipotesi paleontologica, un termine tecnico per una disciplina di settore (come Drosophyla, Glossopteris, NaOH, protone, Placca del Pacifico e migliaia di altri termini scientifici) è stato elevato a dogma iconografico, a “realtà meritevole di essere salvata dalla revisione”, al punto che TUTTI oggi sanno cosa significhi Tyrannosaurus, e, automaticamente, immaginano con chiarezza un animale che non hanno mai visto realmente (il “tirannosauro squamato”), che non vedranno mai, e che, sopratutto, la scienza stessa ci dice che NON è mai esistito?
Per ignoranza nei confronti dei dati più recenti della paleontologia? In parte sì, ma non solo.
Forse questo non è il blog adatto per rispondere...
PS: probabilmente alcuni dei “nostalgici della squama” si sentiranno il dovere di controbattere. Dato che è un loro diritto, sono benvenuti. Faccio solo notare che le obiezioni di natura paleontologica sono destinate a ritorcersi contro chi le solleverà, dato che, come ho esposto sopra, io NON sto sostenendo alcunché sul reale tegumento di Tyrannosaurus (del quale non esistono tracce dirette, ma solo inferenze), bensì sto rimarcando che l’ipotesi “squamata” è in contraddizione con il metodo corretto di interpretare i dati paleontologici, che si basa su un protocollo comparativo con le specie più imparentate per determinare tratti anatomici non conservati nei fossili.
Ipotizzare che Tyrannosaurus fosse squamato ha la stessa validità scientifica che ipotizzare che Homo erectus avesse il marsupio.
NOTA DEL 14-10-2008: HO AGGIUNTO UN LINK A QUESTO POST (CLICCARE SUL TITOLO, GRAZIE MEUSI!) NEL QUALE SI DISCUTE DEL TEGUMENTO DI TYRANNOSAURUS. Interessante che le tracce di tegumento tubercolato citate si trovino alla base ventrale della coda, come in Juravenator e Epidendrosaurus (faccio notare che quest'ultimo ha tracce di piumino in altre zone del corpo): può essere la prova che in questi teropodi ci fosse un mix di piumino e tubercoli... Nuovi dati sono necessari per risolvere la questione.
La contraddittoria scala evolutiva e lo sciovinismo mammaliano
Il mio segno zodiacale non esiste. O se esiste, è “Vertebrati”, oppure “Attinopterigi”: dipende dall’approccio che uso. Dopo questo incipit, parliamo di cose serie...
La razza ariana è la migliore. Ciò è vero solo se siete bianchi, possibilmente biondi, siete cresciuti in una società nordoeuropea, possibilmente xenofoba, e magari vivete tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo. Ovviamente, questa obiezione basata sulla contingenza storica delle opinioni verrà contestata proprio da chi ha elaborato tale idea (che, guarda caso, molto probabilmente rientra nella categoria che ho appena descritto). Egli sfornerà una serie di DATI a sostegno della superiorità bianca, ad esempio, chiamerà in causa il successo di tale razza nel mondo, le virtù culturali e fisiche di tale etnia, e sottolineerà i limiti ed i fallimenti delle altre popolazioni. Noi oggi bolliamo tali argomenti come frutto di un’ideologia distorta, dimostratasi essa stessa fallimentare davanti alla Storia, dei ragionamenti capziosi dettati dal bisogno di dimostrare un’evidenza falsa, basata più sul bisogno inconscio di giustificare una contingenza storica (l’espansione europea tra il XVIII ed il XIX secolo) ammantandola di necessità. Tuttavia, tale atteggiamento sciovinista è molto più diffuso di quanto si creda. In fondo, chiunque creda che la propria religione sia quella vera e le altre false commette lo stesso tipo di errore, confondendo la contingenza con la necessità. Persino tra gli atei ed i sostenitori del pensiero razionale il seme dello sciovinismo ha attecchito ed attecchisce. La massima espressione in ambito scientifico di tale impostazione consolatoria, di tale mistificata necessità di auto-esaltare la propria particolarità definendola “superiorità” è la stucchevole e contraddittoria scala evolutiva dei vertebrati, una supposta (in tutti i sensi) catena lineare di gradi di perfezione che, guarda caso ancora, culmina nella (supposta ed autoproclamata) Classe degli animali Più Evoluti, ovviamente, la nostra, Mammalia.
Tutti sanno che i vertebrati sono divisi in cinque classi: Pesci, Anfibi, Rettili, Uccelli e Mammiferi.
Spero di non scioccare nessuno, ma quella lista (che è regolarmente citata in quel ordine, quasi che sia un dato di fatto) è scientificamente falsa, oltre che inutile. Essa è solo una serie arbitraria di gruppi pretestuosamente allineati secondo uno schema non reale che non corrisponde ad alcunché di evolutivamente sensato. Per giunta, questa serie ha al suo interno due gruppi artificiali, “Pesci” e “Rettili”: il primo non è altro che l’insieme di tutti i vertebrati che non possono essere inclusi nelle altre quattro categorie, il secondo è l’insieme di tutti i vertebrati terrestri che depongono uova con guscio ma non hanno penne o pelo (non dimentichiamo i monotremi): entrambi i gruppi non sono definiti da caratteri esclusivi, né formano una categoria tassonomica naturale secondo i criteri attuali della tassonomia.
La scala naturale dei vertebrati è una mistificazione sciovinista, un tentativo di fondare una sistemazione consolatoria degli esseri, basata su criteri soggettivi. Non a caso, tutti gli altri animali esistenti sono frettolosamente incasellati in un unico gruppo (anch’esso innaturale come lo è “Pesci” o “Rettili”), quello degli “Invertebrati”.
A volte mi chiedo come sarebbero classificati tutti gli animali se noi fossimo dei cefalopodi invece che dei vertebrati: gli Inmolluschi e i Molluschi?
Dato che Homo sapiens è un mammifero, è chiaro che riterrà i mammiferi l’apice dell’evoluzione, sebbene ciò non sia giustificato da particolari “superiorità” mammaliane (le quali sono “superiorità” solo se si assume a priori che quello mammaliano sia il modello di organismo migliore possibile).
Quali criteri definiscono la “superiorità”? L’intelligenza? In tal caso sarebbe più sensato scardinare Homo dai mammiferi per creare la classe Hominidae, dato che solo l’uomo ha un tipo di intelligenza inespresso in altre classi (delfini e scimmie non sono più brillanti di corvi e pappagalli, sia dal punto di vista sociale che raziocinante). Così facendo, però, dimostreremmo che creiamo categorie ad uso e consumo della nostra vanità.
Ovviamente, ci sarà qualcuno che obietterà che l’anatomia dei mammiferi è la più evoluta tra quelle vertebrate. Per poter affermare ciò, è necessario definire oggettivamente cosa significhi un maggiore o minore livello evolutivo.
La complessità anatomica?
Cos’è la complessità anatomica? Il numero e l’interrelazione delle parti componenti? La variabilità morfologica? In tal caso, un dipnoo (un tipo di “pesce”) è molto più evoluto di un uomo, in quanto ha, ad esempio, un numero molto maggiore di ossa, ha contemporaneamente sia branchie che polmoni, ha un ciclo vitale con larve e adulti molto diversificati, ecc...
Oppure è la nostra modalità riproduttiva ad essere un marchio di evoluzione? Un pesce produce centinaia di uova che abbandona subito, mentre noi produciamo un solo figlio, che partoriamo vivo, curandolo ed allevandolo fino allo svezzamento (ed anche oltre). Può essere... tuttavia, anche gli squali partoriscono, e i pinguini allevano un piccolo alla volta. Inoltre, esistono uccelli che restano con i genitori persino dopo che questi ultimi hanno deposto nuove uova, collaborando alla cura dei futuri fratelli. Quindi, la scelta del nostro sistema riproduttivo non dà misure oggettive di quella che vorremmo fosse la nostra elevazione naturale. Come fare?
Ha senso cercare una serie evolutiva?
Ammettiamo che si possa fare. Se davvero dovessimo elencare i principali gruppi di vertebrati, una lista scientificamente sensata dovrebbe essere basata su criteri oggettivi, altrimenti non è scienza, ma è arte, mito, religione, politica...
Quali criteri dovremmo usare? Probabilmente il migliore sarebbe la genealogia, oppure la cronologia, cioè la sequenza con la quale i vari gruppi si sono diversificati nel tempo. Seguendo questi criteri, i vertebrati dovrebbero essere quindi elencati in categorie monofiletiche (quindi non basate sulla negazione di caratteri come è il caso dei “Pesci” e dei “Rettili” citati sopra, bensì su reali novità evolutive esclusive di quel gruppo) elencate secondo la loro sequenza di differenziazione cronologica.
Bene, torniamo ai cinque gruppi di prima. (Siccome non l’ho detto prima, non mi riferisco ai gruppi fossili, ma solo ai gruppi viventi attualmente). Dunque, Anfibi, Uccelli e Mammiferi sono gruppi naturali validi, mentre gli altri due vanno invece scomposti fino a trovare dei gruppi evolutivamente naturali. Una volta fatta questa operazione, allineiamo tutti i gruppi ottenuti in base al momento in cui la linea evolutiva che li porta si è distinta da tutte le altre. Solo così avremo una lista oggettivamente valida dei vertebrati, basata su un criterio cronologico e genealogico.
Tale lista può risultare ostica ai non addetti ai lavori, tuttavia è l’unica valida oggettivamente, indipendentemente dalla soggettività e dai desideri di chi la determina (che sia uomo sapiente, canguro intelligente o mollusco razionale...). Essa è:
Missinoidi, Lamprede, Condroitti, Attinopterigi, Dipnoi, Celacanti, Anfibi, Mammiferi, Cheloni, Lepidosauri, Uccelli e Coccodrilli.
Mi dispiace per chi sperava ancora in una oggettivazione della nostra superiorità, ma noi non siamo né al culmine cronologico né a quello tassonomico: la linea dei mammiferi si differenzia dalle altre ben prima di quelle dei veri “rettili”, ovvero 310 milioni di anni fa, così come il gruppo comprendete tutti i mammiferi viventi oggi non è l’ultimo comparso, dato che esiste da 190 milioni di anni, contro i soli 90 milioni degli uccelli e i 70 milioni dei coccodrilli (entrambe le linee di questi due gruppi si differenziarono 240 milioni di anni fa, 70 milioni di anni dopo che quella dei mammiferi si era differenziata).
So che generalmente si dice che i coccodrilli siano vecchi di 200 milioni di anni, ma è una grossolana bugia priva di fondamento paleontologico, una mistificazione dettata appunto dal desiderio di far apparire la nostra genìa mammaliana come l’ultima, quindi (per un errato collegamento logico) la più nuova, che, in una consolatoria scala lineare di perfezionamento, significherebbe “la migliore”.
Ovviamente, nulla vieta che continueremo a crederci quello che non siamo...
mercoledì 8 ottobre 2008
Errori di battitura o lapsus?
martedì 30 settembre 2008
Due Aforismi felicemente stupidi
Il mio matrimonio è come il mio funerale: non ci andrò mai razionalmente, anche perché detesto vestirmi "bene".
lunedì 29 settembre 2008
Archetipi, Baupläne ed altre inutilità zoologiche - Prima parte
L’effetto più sconvolgente del darwinismo non è la teorizzazione del cambiamento evolutivo, dato che tale concetto era già stato proposto da illustri filosofi e scienziati precedenti. Ciò che rende la teoria di Darwin così blasfema ed inaccettabile a molti (anche oggi) è che essa propone una spiegazione totalmente naturalistica ed assolutamente plausibile per l’esistenza della grande diversità vivente, una spiegazione che non ha bisogno di alcuna base ideale di tipo platonico o religioso. Prima di Darwin, l’unica spiegazione sensata dell’esistenza di innumerevoli individui di una stessa “specie” era che essi fossero tante differenti versioni materiali di un “tipo”, od “idea” o “modello” di origine puramente mentale (e quindi, implicitamente, richiedevano l’esistenza di una Mente Divina che le avesse ideate), quindi imperfette e soggette ad accidentali deviazioni dall’archetipo divino. Il darwinismo invece riconduce la molteplicità degli individui ad un meccanismo puramente naturale, ovvero, il fatto che ogni individuo è una copia approssimata di uno o più individui progenitori: tanto più due individui sono strettamente imparentati, tanto più essi tenderanno ad assomigliarsi. Pertanto, la somiglianza tra me e mio fratello è, ovviamente, la conseguenza del fatto che abbiamo un numero di progenitori in comune più grande di quello che entrambi possono avere con il Re di Spagna, con la cagnetta Laika (che riposi in pace), con il Tyrannosaurus “Sue” (...), o con l’olotipo di Zhea mais. Data la straordinaria semplicità dell’idea darwiniana, nonché l’alto numero di fenomeni che essa spiega, non stupisce che abbia avuto un enorme successo; né sorprende che per molti essa sia insopportabile, dato che scalza altre spiegazioni metafisico-religiose dal consolidato piedistallo di “necessità esplicativa per la vita”.
Esiste, tuttavia, un luogo della biologia che, apparentemente, resterebbe immune dal potere esplicativo dell’idea darwiniana, un luogo nel quale sembrano essersi arroccati, cocciutamente, gli ultimi difensori dell’obsoleta idea archetipico-religiosa. Come vedremo, tale arroccamento è sostenuto solamente dall’ignoranza di chi si è insediato indebitamente in un territorio che non gli compete più, non certo dall’apparente incapacità del darwinismo di spiegare le evidenze. Tale luogo è il Dominio della Macroevoluzione, il risicato Risiko dei Cladi di ordine superiore, in particolare, le alte sfere della Tassonomia abitate da Classi e Phyla. Come spesso sostengono gli antidarwiniani, la teoria evoluzionista potrebbe anche (e benissimo) essere valida per la “microevoluzione” (i processi di modificazione nel tempo dei pool genetici nelle popolazioni), ma non sarebbe assolutamente in grado di spiegare il passaggio a nuove specie, né, sopratutto, l’esistenza di entità così differenti come i grandi Phyla dei viventi, come i Molluschi, gli Artropodi, ovvero, non spiegherebbe la “macroevoluzione” (tutto ciò che avviene alla scala tassonomica superiore alle specie).
Primo tipo di errore: “Dato che ogni figlio appartiene alla stessa specie del padre, allora non può mai avvenire il passaggio ad una nuova specie”.
La prima obiezione (il passaggio da una specie ad una successiva), oggetto del resto del post, è facilmente risolvibile in base alla stessa logica di scala che usiamo per affermare che ognuno di noi è un individuo reale e non un’appendice della propria madre (nella seconda parte mi dedicherò ai Phyla e alle Classi). Partiamo da un esempio che tutti possono sperimentare (se hanno un minimo di pazienza): prelevate un campione di acqua da uno stagno e osservatela al microscopio. Se avrete fortuna, osserverete alcuni microrganismi, ad esempio i classici parameci da lezione di biologia. Da bravi organismi, i parameci tenderanno a riprodursi ogni qual volta le condizioni ambientali lo permetteranno: ciò è inscritto nel loro genoma, che essi hanno ereditato dai loro progenitori, lo stesso genoma che, se non avesse al suo interno delle istruzioni che inducono alla duplicazione del paramecio, si sarebbe dissolto milioni di anni fa con gli individui che lo portavano. Tornando al paramecio, osserveremo che esso inizierà a duplicarsi, fino a separarsi in due parameci distinti, secondo un meccanismo che dura alcuni minuti. In altri microrganismi, invece di dividersi in due figli, si può osservare l’individuo-genitore che produce una gemmula, la quale si stacca dal genitore per vivere di esistenza propria. In tutti questi casi, abbiamo un individuo di partenza che dopo una fase più o meno breve di tempo subisce una trasformazione, al termine della quale abbiamo due individui distinti, oppure abbiamo un individuo quasi identico al precedente più un piccolo individuo figlio. Dato che alla scala dei parameci e degli esseri umani il processo avviene con gradualità e continuità, e sebbene durante la fase intermedia ci possa essere scambio di materiale interno tra le due parti in scissione, nessuno nega che alla fine del processo avremo almeno un individuo nuovo, generato dal precedente. Noi riconosciamo che il processo ha generato un nuovo individuo perché al termine di tale processo il genitore ed il figlio sono distinti e non si possono più combinare per rigenerare l’individuo di partenza. Non ha alcuna importanza se le parti interne di uno dei due possono passare temporaneamente nell’altro durante la fase di scissione: una volta che la scissione è avvenuta, i due individui sono distinti, e siccome prima ne esisteva uno solo, dobbiamo concludere che il processo ha prodotto un nuovo individuo. Ora, sostituite i millenni ai minuti, gli individui di microrganismo alle specie, e, sopratutto, sostituite la parete cellulare con i meccanismi di isolamento riproduttivo ed otterrete un processo di speciazione evolutiva. Esattamente come è ridicolo dubitare sulla validità del concetto di individuo usando a pretesto la fase di scissione (quando i due microrganismi hanno ancora in comune parte della parete cellulare) per affermare che non può esistere la riproduzione (dato che la durata della scissione è relativamente breve rispetto alla durata media dell’esistenza degli individui), così è ridicolo soffermarsi sulla breve (in termini geologici, anche se lunga alla scala dei tempi umani) fase di speciazione (quando la popolazione-figlia sta separandosi geneticamente dalla specie-madre, e si stanno formando dei meccanismi di isolamento riproduttivo tra la nuova specie e quella antenata) per mettere in dubbio la validità dell’evoluzione di una nuova specie da una progenitrice. Un critico potrebbe dire che le molecole di DNA (o gli organelli cellulari) esistenti nell’individuo figlio sono state copiate da DNA del genitore, e che non esiste un momento preciso in cui si può dire che il DNA smette di essere del genitore e diviene del figlio. Tuttavia, tale critica compie un errore di scala, assumendo che una parte (il DNA) definisca l’individualità complessiva (del microrganismo). Allo stesso modo, anche se è vero che ognuno di noi può essere legato con una serie di eventi riproduttivi a ritroso nel tempo fino all’origine degli organismi, ciò non significa che allora tutti quei miei progenitori rievocati da quegli eventi debbano essere membri della mia specie! Non commettete l’errore di scala citato sopra: gli individui singoli, e le catene a ritroso di individui genitore-figlio, NON definiscono un legame di appartenenza ad una specie, esattamente come la catena successiva di duplicazioni di molecole di DNA a ritroso nel tempo NON implica che il paramecio figlio ed i suoi predecessori siano lo stesso individuo.
Spiegazione tecnica: una nuova specie si forma quando una popolazione di una specie originaria ha mantenuto un isolamento riproduttivo con il resto della specie originaria sufficientemente lungo da sviluppare (spesso casualmente) dei meccanismi di isolamento riproduttivo tali da impedire un rimescolamento genetico tra la popolazione (che ora è una nuova specie) ed il resto della specie originaria.
Nella prossima parte smonterò le obiezioni alla validità del darwinismo per spiegare le grandi categorie tassonomiche.