lunedì 20 ottobre 2008

Il frustrante successo della frustrazione

Un’opinione diffusa ma sbagliata dell’evoluzione è che essa porti al “miglioramento” degli organismi. Il ragionamento di partenza di questo mito sull’evoluzione è l’idea che qualsiasi modifica, anche minima, nelle caratteristiche dell’organismo che ne migliorino la sopravvivenza conferisce un vantaggio riproduttivo, il quale fa aumentare il numero dei portatori di tale modifica nella generazione successiva, ecc... Anche se questo ragionamento è corretto, ciò non implica che sia valido a rovescio. Ovvero, non è detto che un carattere che porta un danno ad un individuo sia necessariamente eliminato dalla selezione naturale. Anzi, in questo post presento un caso nel quale un carattere chiaramente dannoso per la vita di chi lo possiede è evolutivamente vantaggioso (in quanto aumenta le probabilità di avere un successo riproduttivo).

Sta emergendo sempre più la consapevolezza che quello che chiamiamo “Io” sia in realtà una pluralità di moduli neurologici in simbiosi-competizione. Molti aspetti apparentemente paradossali della mente umana sono più comprensibili interpretando il cervello come un ecosistema neuronale, piuttosto che come una monade indissolubile sede di un fantasma chiamato psiche. In particolare, la consapevolezza che il cervello umano attuale sia un assemblaggio seriale di differenti stadi evolutivi, probabilmente gerarchizzati a svantaggio delle parti più recenti (le linguistiche-razionali-consapevoli, rispetto alle emotive-viscerali-inconsapevoli) ci induce a interpretare in un’ottica evoluzionistica alcuni aspetti patologici della nostra psicologia.

Le frustrazioni sono uno degli aspetti più diffusi della natura umana. Il conflitto tra desideri potenziali e possibilità attuali spesso genera sofferenza interiore. Ciò che è paradossale, è che spesso tali desideri non corrispondono a effettivi bisogni vitali immediati. Si può benissimo sopravvivere anche senza la gloria, la fama, il successo, il sesso, il lusso. Anzi, spesso si vivrebbe meglio se non ci fosse l’ossessione di appagare tali “bisogni”. Non è un caso che buona parte, se non la totalità, delle esigenze che ho citato abbiano a che fare con la sfera riproduttiva. La riproduzione è la base dalla quale è emersa la sessualità (base che poi, nella civiltà moderna, è stata progressivamente abbandonata, anche se non definitivamente), la quale fa da catalizzatrice e fulcro per il bisogno di potere, fama, successo, a loro volta fondamento per il lusso e la gloria. Un’intera rete di esigenze non vitali ha come fondamento la riproduzione (ripeto, le necessità vitali immediate di un individuo sono la nutrizione, la termoregolazione, la salute e la difesa). Pertanto, dato che qualsiasi caratteristica che aumenti le probabilità riproduttive è selezionata positivamente dal punto di vista evolutivo, è evidente che il sentimento della frustrazione ha un indubbio vantaggio evolutivo per l’individuo portatore di tale sentimento, inducendolo massicciamente a cercare di appagare tutte quelle esigenze derivate dalla riproduzione. Al contrario, l’assenza di frustrazione porta ad essere appagati solamente per le esigenze vitali primarie (le quali in genere sono segnalate da sentimenti più semplici ed arcaici, come la fame, la paura, il freddo e la rabbia), riducendo (rispetto ai frustrati) l’impegno per la riproduzione.

Morale della favola: quando saremo veramente felici ci estingueremo.

2 commenti:

  1. "quando saremo veramente felici ci estingueremo."

    Be', che dire? L'explicit rende bene l'idea.
    Il post è gravido di conseguenze e di annotazioni psicanalitiche, ma purtroppo il tempo latita. Rimando.
    Complimenti per gli spunti.

    Leo

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  2. - "quello che chiamiamo “Io” sia in realtà una pluralità di moduli neurologici in simbiosi-competizione. Molti aspetti apparentemente paradossali della mente umana sono più comprensibili interpretando il cervello come un ecosistema neuronale, piuttosto che come una monade indissolubile sede di un fantasma chiamato psiche."

    > La "psiche" unitaria non esiste, nè come teoria nè come 'monade'.
    Esiste sì, ma come mera etichetta di pluralità di contenuti e di conflittuali tra aree.
    Come a dire, "tecodonti" per raggruppare insiemi eterogenei: errato e fuorviante.

    Prometto un articolo sull'organizzazione della psiche nelle principali scuole di psicologia; per ora premetto solo queste righe come "pubblicità":

    > "psiche"; parola greca che etimologicamente significa "soffio" che anima e vivifica un corpo. In questo senso Aristotele parla di psyché come identica a bìos,a lla vita. I latini introdussero "psiche" con anima mantenendo il dualismo platonico di anima e corpo che R. Descartes riformulerà nel dualismo res cogitans e res extensa, dove vige la distinzione tra il mentale e il fisico. Con la nascita della psicologia scientifica nel secolo XIX il termine "anima" fu abbandonato, perchè gravido di implicazioni filosofiche, metafisiche e morali, per adottare il termine psiche, più neutro e più tecnico. Il suo significato è affidato ai vari sistemi di pensiero che lo determinano in base al loro impianto categoriale e alle loro premesse.
    Galimberti, U., Psicologia, p. 798, 2006, Milano, Garzanti [1992 1a ediz., Dizionario di Psicologia, Torino, UTET]
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    - " consapevolezza che il cervello umano attuale sia un assemblaggio seriale di differenti stadi evolutivi, probabilmente gerarchizzati a svantaggio delle parti più recenti (le linguistiche-razionali-consapevoli, rispetto alle emotive-viscerali-inconsapevoli) ci induce a interpretare in un’ottica evoluzionistica alcuni aspetti patologici della nostra psicologia."

    > beh, questo è Jung. Se a tali contenuti pregressi/inconsci applichi il termine-etichetta "archetipo", abbiamo un pezzettino di psicologia analitica junghiana. Rimando al post "Back to basics" #1:

    http://geomythology.blogspot.com/2008/09/archetype-back-to-basics-1-definitions.html

    Leo

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