mercoledì 28 novembre 2007

Longevità, Castrazione e Guerre Mondiali: epifenomeni tardivi di perturbazioni gametiche. Prima Parte.

Cos’hanno in comune una vecchia di centoquindici anni, la carneficina del 1914-1918 ed un bue? Per rispondere a questa domanda dovremo ribaltare un luogo comune della demografia, prelevare sangue da cervelli e viaggiare indietro nel tempo di almeno un miliardo di anni. Se avete sufficienti basi di biologia per comprendere la parte tecnica del discorso, non dovreste soffrire troppo di mal di mare. Per gli altri, spero di risultare chiaro e di non essere frainteso.

Partiamo da un dato abbastanza noto della demografia: il tasso di longevità femminile è più alto di quello maschile. In genere, si dice che le donne vivano 5-10 anni in media più degli uomini. Questo dato mi fece riflettere sul fatto che mia madre, avendo dieci anni meno del mio mitico vecchio, dovrebbe attendersi un 10-15 anni di vedovanza (indipendentemente da chi vivrà più a lungo, l’importante è che i vivi non soffrano). Dopodiché mi domandai: qual’è la causa di una simile differenza di longevità? Se il dato, come appare, non è casuale, allora deve avere una causa, o una sommatoria di concause generanti. (Già che sono qui, rimarco la seguente banalità: l’esistenza di una media di 5-10 anni di longevità non implica una necessità: mio nonno paterno trascorse gli ultimi 10 anni della sua vita da vedovo, e sua moglie era più giovane. Chiusa parentesi banale).

La prima spiegazione che uno potrebbe cercare è di tipo biologico diretto: la donna è programmata geneticamente per vivere di più. Ciò, in un’ottica biologica darwiniana è assurdo, nonché contraddittorio. Ovvero, se dovessimo cercare una causa biologica diretta della longevità femminile, e quindi dovessimo cercare un valore adattativo nella longevità femminile rispetto alla maschile, giungeremmo ad una contraddizione. Ciò per il seguente motivo: ammettiamo che ci sia un vantaggio evolutivo nella longevità; allora quale sarebbe il maggiore vantaggio nella longevità femminile? Apparentemente, non ne esiste: dato che il tasso riproduttivo potenziale di un maschio è più alto di quello femminile sia in termini di numero potenziale di figli (un maschio produce nella sua vita miliardi di spermatozoi, tutti potenzialmente in grado di fecondare, mentre una donna produce alcune migliaia di ovuli) sia in termini di potenzialità temporale (la fertilità femminile naturale non supera il cinquantesimo anno, mentre è documentato che uomini sui 70-80 anni sono diventati padri), non risulta più vantaggioso in una popolazione che la donna sia più longeva: anzi, siccome un uomo a 70 anni potrebbe (ma, dico io, forse non dovrebbe) diventare padre, mentre una donna non lo potrebbe più da circa un ventennio (essendo in menopausa), ci dovremmo attendere un’evoluzione della longevità maschile. Anche prendendo in considerazione le cure parentali (strettissime e di così lunga durata nella specie umana), il discorso non cambia: non esiste un reale vantaggio adattativo nella maggiore longevità femminile (anzi, anche qui si rimarca il paradosso della più bassa longevità maschile: dato che, spesso, nella coppia è il maschio il più anziano, sarebbe più vantaggioso per la durata della coppia se egli fosse potenzialmente più longevo... vedi citazione della possibile fase di vedovanza di mia madre): anche qui, comunque, il discorso è puramente teorico: alle età attualmente citate per la longevità maschile (75-80 anni) nessuno ha più figli piccoli da accudire (e quindi non è selezionato negativamente rispetto a più efficienti coppie giovani).

Dove voglio arrivare con questo discorso? Semplicemente col dire che non credo che esista una causa evoluzionistica diretta che generi una maggiore longevità femminile, perché non esiste un motivo evoluzionistico che giustifichi (cioè potrebbe generare) una maggiore longevità femminile.

Eppure, il tasso di longevità è un dato di fatto. Forse, ma solo in parte.

Come viene calcolata la longevità di una popolazione? Senza entrare nelle discussioni statistiche, quello che viene calcolato effettivamente non è la longevità, bensì il tasso di mortalità. Ovvero, non è corretto dire che si determina la maggiore longevità femminile, bensì che si determina la maggiore mortalità maschile. Il dato reale è quindi il seguente: i maschi hanno un tasso di mortalità più alto delle femmine. Ora, uno potrebbe obiettare che non cambia nulla nella soluzione del problema. Tutt’altro: mentre il problema della longevità si riduceva ad un’assurda ricerca di una causa interna diretta della longevità, la quale, ovviamente, è solo la capacità di perdurare nel tempo, la mortalità può (e deve) essere cercata anche (e sopratutto) investigando i fattori esterni che provocano la morte.

Qualcuno una volta fece l’intelligente osservazione che esistono molti più modi di essere morti che di essere vivi (e questo perché esiste un’infinità di combinazioni non vitali di particelle, mentre solo un sottinsieme delle combinazioni possibili è un essere vivente e funzionante), analogamente, esistono molti più modi di morire che di restare vivi. Quindi, statisticamente, è più probabile morire che sopravvivere.

Ma perché gli uomini hanno una probabilità più alta di morire? Se abbiamo constatato che il tasso di mortalità maschile è maggiore di quello femminile, dove possiamo trovare la causa di ciò? Ovviamente nella fonte di ogni azione: nel cervello. Lo so, sto entrando in un campo minatissimo: ma non fatevi subito prendere dai vostri pregiudizi e luoghi comuni. Seguite il ragionamento fino in fondo, e poi valutatelo tutto assieme.

In più di un secolo di ricerca neuropsicologia, fisiologica ed anatomica è emerso che le differenze tra cervello maschile e femminile sono trascurabili e non significative. Analogamente, la gamma comportamentale tra maschi e femmine è praticamente identica e sovrapponibile (con le ovvie differenze particolari, culturali e storiche che complicano ogni valutazione dei dati). Tranne che in un aspetto. In tutte le culture, fasce sociali e fasce d’età, esiste un fattore nel quale esiste una marcata differenza tra maschi e femmine. L’aggressività. Anche se tutti conosciamo donne aggressive e maschi poco aggressivi, statisticamente, nella popolazione umana presa nel complesso, la percentuale di individui aggressivi (presi con qualsivoglia metro di valutazione: reati commessi, reazione a determinati induttori dell’aggressività, durata e persistenza del comportamento violento e/o aggressivo) è composta maggiormente da maschi. Ciò ha sicuramente a monte una serie di fattori scatenanti, ma proprio per il fatto che essa è l’unica differenza misurata con sicurezza in così tante culture e fasce di età, deve comunque risiedere in qualche aspetto biologico maschile. Difatti, esiste una stretta correlazione tra induttori biologici dell’aggressività (ormoni in primis) e sessualità maschile. Il principale ormone maschile è il testosterone, il quale, pur prodotto anche dal corpo femminile, è secreto principalmente dal testicolo. Il testosterone è anche il principale (ma non unico) ormone correlato al comportamento aggressivo. Questo è noto da secoli, ed è alla base della pratica della castrazione: un bellicoso toro (e non solo bovino) può essere trasformato in un mansueto bue con un rapido colpo mutilante alle parti basse: la trasformazione del suo comportamento e del carattere è strettamente veicolata dalla secrezione di testosterone. Ovviamente, il comportamento umano è più complesso, ma nondimeno è chiaro che l’azione del testosterone influenza l’aggressività. Pertanto, è possibile che il più alto tasso di aggressività maschile sia un fattore determinante nell’incidenza maggiore della mortalità maschile nella popolazione, e quindi nell’apparente paradosso evolutivo della più alta longevità femminile.

Bene, questa prima parte è conclusa. Nella prossima spiegherò perché ho tirato in ballo la Prima Guerra Mondiale e gli oscuri eventi diluitisi nelle noiosissime eternità del Precambriano.

Ancora una volta, non fraintendete il senso di queste argomentazioni aldilà del loro ambito.

Lunga vita a tutti!

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