Se non temi il Vuoto ed il Freddo, e sai fronteggiare l’impulso viscerale alla fuga consolatoria senza farti sopraffare dal magone (non sempre ne siamo capaci, perché siamo fragili croste di consapevolezza trascinate da un mantello di programmi neuroemotivi), allora benvenuto nell’Iperborea, la Terra che sta Oltre il Nord.
Illustri predecessori hanno tracciato la via. Ripercorriamo il loro viaggio, consapevoli che il principale ostacolo al completamento del tragitto siamo noi stessi.
Le prime giornate di viaggio sono tra le più dure che un’anima può attraversare nella sua vita: l’attrito col suolo di Iperborea è doloroso, perché i nostri piedi non si sono ancora abituati ad essere scalzi. Il terreno è gelido. Terribilmente ghiacciato. Fitte dolorose, come aghi, penetrano le carni, accentuano la fatica. Nei primi giorni nella Terra del Gelo, la tentazione di ripiegare verso sud, di tornare nelle calde, molli dolcezze del Mondo Mitizzato, del Consolante Appagamento, è fortissima. Basterebbe richiudere gli occhi, rilassarsi, smettere di edosofare (non esiste un verbo per questa particolare forma di pensare, il piacere-nel-pensare, ecco perché la battezzo qui, l’edosofìa), tornare ad essere pre-teoretici, “umani” nell’accezione plesiomorfica del termine (completi delle condizioni sufficienti, privi di caratteri derivati).
Nei giorni successivi, un nuovo nemico, sempre secreto dal nostro mantello pleistocenico, ci tormenta, nel tentativo di farci ritirare. Il Programma Ereditato, la nostra causa generatrice, deve la propria persistenza (e quindi anche la nostra) al successo derivato nell’indurre la riproduzione. L’egoismo individuale si perpetua tramite un atto sociale, un subdolo stratagemma imposto da 2 miliardi di anni di meiosi: mascherato da sentimento, l’evento fecondativo perpetua sia sé stesso che i suoi simbionti programmi sociali.
Noi, l’inattesa crosta di dubbio, l’imprevista auto-ripiegatura del sistema sensoriale, siamo dei potenziali pericoli alla perpetuazione del sistema. Sia chiaro, il sistema non ha alcuna motivazione, e non aspira ad alcuna perpetuazione di sé: esso agisce esclusivamente in funzione del proprio programma, limitandosi ad esprimere quelle istruzioni che sono scampate alla cieca cernita del mondo esterno. Eppure, visto in un’ottica a posteriori, l’impulso a migrare verso Iperborea è palesemente svantaggioso: esso riduce fortemente la probabilità di perpetuazione di chi lo manifesta. Per questo motivo, probabilmente, i livelli ancestrali hanno dei programmi di contenimento dell’impulso edosofico: l’angoscia, la frustrazione, il dolore che ci producono i primi giorni di viaggio sono l’effetto necessario del conflitto in atto tra la minoranza lucida e la maggioranza arcaica, sono stati selezionati positivamente proprio perché capaci di frenare (se non arrestare del tutto) l’inevitabile suicidio evolutivo dell’edosofia.
Cosa accadde il giorno che superammo l’ultima forra, ed entrammo nella Valle Iperborea? Guardammo il cielo.
Il sole non era mai stato così brillante. Non esiste ombra in Iperborea. La luce bianchissima, tendente all’azzurro, dapprima acceca. Ma ben presto, gli occhi si abituano, i dettagli del paesaggio prendono a farsi riconoscibili.
Iperborea ora ci appare in tutta la sua terribile bellezza. I monti sono altissimi, guglie svettanti levigate dalle glaciazioni. I fiumi non hanno sponde, e le acque scorrono impetuose e schiumanti, perennemente turbolente. Non esiste limpidezza nelle acque. Gli alberi hanno cortecce spinose, ed i rami sono contorti, avvolti nei rampicanti. Le bestie hanno occhi inespressivi, freddi sguardi di rettile. Non esistono animali domestici. Le case sono prive di fondamenta, le pareti sono costantemente in preda a sussulti, ed ogni giorno devono essere riparate, rinforzate dalla nostra fatica, consolidate dal nostro impegno.
Non ci sono chiese, né cimiteri in Iperborea. Qui si coltivano l’orgoglio dell’essere e la moderazione dell’avere, la vista acuta, il respiro potente. Gli Iperborei biasimano i credenti e disprezzano gli atei, sanno ridere e piangere, amano bere ma odiano ubriacarsi. Le guerre degli Iperborei non hanno vittime, ma solo confutazioni.
La morte è di casa in Iperborea, così come il dolore, la fatica, la solitudine.
Iperborea è il Mondo Reale, nel quale nasciamo e moriamo. Ma solo pochi riescono a vederlo, meno ancora a vivervi tenendo gli occhi aperti.
Ho fame: vado a farmi una braciola, crogiolata nel suo grasso, senza sale o spezie, solo un filo d’olio d’oliva, come piace a me.
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