mercoledì 17 settembre 2008

Vita, Esistenza, ed altre convenzioni del Programma Occamistico

Ogni qualvolta espongo la mia concezione della Persona Umana (per brevità, la chiamerò nel resto del post solamente “persona”) vengo ampiamente criticato. Purtroppo, la stragrande maggioranza delle critiche è di tipo viscerale, non razionale. E dato che una definizione è un’elaborazione razionale, tali critiche sono inutili e poco costruttive all’interno del contesto in cui la definizione è prodotta e (si spera) viene migliorata e corretta.

Cominciamo da un “paradosso”: quanto dura mediamente la vita di una persona? Prima di rispondere, è necessario definire cosa sia “la vita di una persona”. Penso che la migliore definizione sia: l’intervallo di tempo durante il quale un organismo autocosciente sperimenta il proprio fluire continuo nel tempo. Questa definizione è operativamente applicabile, in quanto presuppone un soggetto autocosciente consapevole della propria esistenza, e non è contraddittoria, perché implica un processo storico unidirezionale ed ordinato di consapevolezza che unisce i singoli istanti in un continuum coerente di rapporti causa-effetto. Quanto dura, mediamente, questo intervallo? I più risponderanno, frettolosamente ed errando, che tale intervallo dura circa 70-80 anni. Non è così. In base alla definizione di sopra, una vita umana media dura 6-10 ore. Ciò è dovuto ad un vincolo fisiologico ineluttabile di natura viscerale che non è superabile da alcun organismo razionale noto: la privazione prolungata del sonno porta alla morte, pertanto, non è possibile la persistenza nello stato di veglia (che è il prerequisito dell’autocoscienza) oltre una soglia accettabile di tempo, che non supera mai alcuni giorni, e che comunque, in condizioni ottimali medie, non supera la decina di ore. Nessuno di noi sperimenta più di una decina di ore di autocoscienza continua del fluire del tempo, quindi, per definizione, non esistono vite umane più lunghe di tali intervalli di tempo.

I miei critici diranno che la vita umana è la somma di tanti segmenti di veglia, che, sommati agli intervalli di sonno, producono una vita umana. Anche accettando di eliminare dal conteggio le fasi di incoscienza (sonno, coma, ecc...), una vita umana, dicono questi critici, dura 30-40 anni. Tuttavia, ripeto, quei 30-40 anni non sono un flusso continuo di consapevolezza del fluire del tempo, ma sono un’interpretazione, un assemblaggio a posteriori, di pacchetti parziali di informazione chiamati memoria. Nessuno sta vivendo 30 anni, al più è in grado di costruire nella propria mente una blanda serie di eventi della durata di qualche ora che egli interpreta come il ricordo della propria esistenza passata. Tuttavia, dato che quel ricordo non è una sequenza continua di eventi, ma solo un assemblaggio di vaghi eventi frammentati esistenti in memoria che vengono ordinati da un programma occamistico (ovvero, un procedimento di parsimonia che tende a minimizzare il numero di assunzioni necessarie a spiegare i dati in memoria), il ricordo del proprio passato non risponde ai requisiti della definizione di sopra di vita umana, e quindi non è utilizzabile per misurare la durata della vita umana.

I miei critici diranno: ma proprio in base al programma occamistico, noi attribuiamo a tali eventi disgregati un senso che li ordina nel tempo e che costituisce la prova dell’esistenza di una vita durata decenni. Concordo in parte sull’obiezione, ma, faccio notare, la vita umana non è un’interpretazione di eventi storici, ma un vissuto sperimentabile: altrimenti dovremmo concludere che anche la narrazione della Seconda Guerra Mondiale è una parte della mia vita umana, affermazione che è assurda proprio sulla base delle convenzioni storiche usate dal programma occamistico, le quali interpreterebbero come errata l’affermazione che un individuo nato nel 1978 abbia vissuto la Seconda Guerra Mondiale. Ovvero, gli eventi in memoria che non posso legare da una serie continua di relazioni di causa-effetto con “l’adesso” non fanno parte della mia esistenza attuale, ma sono solo pacchetti di informazioni che il programma occamistico interpreta come “passato”.

Per farmi capire meglio, io posso andare indietro nel tempo dei miei ricordi con una serie di eventi che partono da adesso, arretrano di un secondo per arrivare ad un evento (un secondo fa) collegato causalmente con adesso, il quale evento è a sua volta collegato causalmente con un evento precedente, e così via, fino ad un istante, chiamato “risveglio mattutino” oltre il quale non posso arretrare con la consapevolezza del fluire continuo del tempo. In memoria ho altri eventi, chiamati “ieri”, i quali hanno tra loro la vaga apparenza di continuità temporale, ma che non sono collegati in alcun modo con il tempo “attuale”, con la serie di eventi che posso legare con continuità con il presente. Ricordo vagamente un evento chiamato “io vado a letto”, tuttavia, tale evento non ha alcun evento successivo continuo che lo segue e che lo lega ad adesso: è il programma occamistico che, prelevando altre informazioni in memoria, interpreta tale serie di eventi slegati da ora come un “episodio del mio passato”. Tuttavia, essa è un’interpretazione a posteriori di informazioni presenti nella mia mente prima ancora che le interpretassi come “passate”: chi può dimostrarmi che, invece, tali informazioni non siano state immesse tutte contemporaneamente nel cervello nell’istante che chiamo “risveglio mattutino”, dandomi l’illusione che io abbia un “ieri”? Solo il programma occamistico presente nel cervello mi porta a interpretare tali informazioni come il mio passato, non certo le informazioni stesse, le quali sono solo dati in memoria. Cambiando programma, cambierebbe l’interpretazione*.

Se potessimo costruire una macchina informatica altamente complessa, munita di programma occamistico, e se potessimo inserire nella sua memoria l’intera gamma delle informazioni che io chiamo “miei ricordi”, nulla impedirebbe a quella macchina di affermare che quei ricordi sono il suo passato, un passato che essa ha veramente vissuto: pertanto, se noi siamo certi che quella macchina si sbaglia e si sta auto-illudendo sulla base di un suo programma interno, perché dovremmo essere così certi che non accada lo stesso pure a noi?

In conclusione, dato che non è possibile trascendere il proprio programma occamistico interno, né è possibile sperimentare con continuità più di 6-10 ore di consapevolezza del fluire del tempo, non è possibile affermare con certezza che una vita umana duri più di 6-10 ore.

Un manifesto del solipsismo? No, solo un consiglio a godervi il poco tempo che avete... ovvero, vivete alla giornata!

*dato che sono un naturalista darwiniano, ritengo che il programma occamistico sia un adattamento evolutosi in quanto rispondente alle relazioni di causa-effetto esistenti nell’ambiente che mi circonda. Ciò potrebbe indurmi ad affermare che i ricordi sono una fedele rappresentazione della realtà (la quale ha premiato i possessori del programma occamistico proprio perché è il programma mentale che dà la più fedele rappresentazione degli eventi reali, e quindi garantisce la sopravvivenza reale di chi lo possiede), e che io, quindi, esisto realmente da 30 anni, e non solo da stamattina. Tuttavia, anche il darwinismo è un’interpretazione (la migliore che dispongo): essendo anch’essa di tipo occamistico, non posso essere sicuro che essa non sia parte del programma stesso (rendendo quindi il discorso circolare).

4 commenti:

  1. Un modo per avere ricordi "più certi" potrebbe essere scrivere quotidianamente alla fine del fluire giornaliero della vita un resoconto delle proprie azioni? Il programma occamistico alla mattina seguente potrebbe anche inserire informazioni sul ieri molto interpretabili al risveglio, ma la scrittura delle azioni passate potrà sempre contestarlo e fornire informazioni non interpretabili. Mi sono accorto personalmente che tra i ricordi della mia "vita" di tre anni fa e la realtà del tempo (cioè quello che scrivevo-scrivevano di me stesso e delle mie azioni) non sempre c'è concordanza precisissima.

    Spero di essermi spiegato.

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  2. Io potrei sempre obiettare che la presenza nell'"adesso" di un appunto che parla di eventi passati e la coincidenza parziale di tali scritti con i miei ricordi sono ancora effetti interpretativi del programma occamistico. Ma non mi va di dilungarmi in una discussione che tenderebbe rapidamente alla paranoia solipsistico-Matrixxiana... Il mio intento, come sempre, è quello di proporre un'alternativa razionale e plausibile a ciò che spesso, con viscerale meccanicità, prendiamo per vero "in buona fede"...

    Il tuo commento ha anche un altro aspetto interessante: esso richiama al significato della storia: essa è un'interpretazione di oggetti PRESENTI (nel tuo caso il taccuino con le annotazioni) ai quali noi diamo il significato di tracce del PASSATO.
    Lo dico spesso per i fossili: essi non sono animali del passato, ma tracce presenti alle quali attribuiamo un informazione interpretabile come un animale del passato: LE DUE IMPOSTAZIONI SONO MOLTO DIVERSE, e producono atteggiamenti e mentalità paleontologiche differenti!

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  3. Lo stato di coscienza e le sue discontinuità possono essere alterate fornendo ininterrotta continuità tra gli stati dell'esistenza: veglia, sonno con sogni, sonno senza sogni, catalessi (morte apparente).
    "L'unificazione di questi quattro stati, che presuppone (per quanto appaia paradossale) l'unificazione del cosciente con il subcosciente, l'iiluminazione graduale co le zone oscure ed impenetrabili della vita psicomentale, è d'altra parte, lo scopo ultimo delle tecniche preliminari delle pratiche yoga" [Eliade, 1988-ed. ital].
    E' una convenzione occidentale basata sulla scienza ("il sapere" che è fattuale) il pensare separati questi stati; ma per milioni di cinesi ed indiani (togliendo approssimativamente molti milioni ed aggiungendo taluni paesi di marca buddhista e -se aggiungiamo la Storia della cultura e della religione locale, toccheremo miliardi di persone) non è mai stata messa in discussione la possibilità (per molti) e la realizzazione (per chi sceglieva la vita dello yogin) di abbattere i modi della vita normale.
    "Per mezzo del pranayama, cioè prolungando sempre più la respirazione e l'inspirazione, lo yogin può dunque penetrare tutte le modalità della coscienza. Per un uomo profano esiste una discontinuità tra queste diverse modalità; si passa così dallo stato di veglia a quello di sonno senza averne coscienza. Lo yogin deve conservare la continuità della coscienza, cioè deve penetrare, cioè deve superare, calmo e lucido, in ciascuno di questi stati".
    Lo scopo è quello di giungere all'unificazione di queste modalità per liberarsi in vita delle catene dell'esistenza, giungendo al dato definitivo-interrompere il ciclo di reincarnazioni squarciando il velo di Maya, l'illusione finalistica della vita umana.

    Cito da Eliade (2005; 1a ed. 1954) ma sono disponibili trattati antropologici e di storia delle religioni (seri e scientifici e per questo snobbati dai media scandalistici e sensazionalistici) di studio su tali caratteristiche religiose.
    Si può dunque raggiungere uno stato unificato tra queste quattro modalità.

    - Eliade, M., Lo Yoga. Immortalità e Libertà, pp. 64-67, Milano, BUR, 2005 (1954)
    - Eliade, M., Il segreto del dott. Honigberger, Milano, Jaca Book, 1988

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  4. Ovviamente il mio commento non è una critica - anche perchè condivido parte delle argomentazioni.
    Sempre all'insegna del chiarimento, e del decostruzionismo, intendevo solamente far notare l'eccesso di antropocentrismo eurocentrico della conoscenza lato sensu...e mi sono chiesto cosa ne penserebbe uno yogin leggendo il post.
    Poi, certamente il discorso della filosofia indiana (e della religione) mi prenderebbe tantissimo tempo...mi fermo qui.

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