Nella prima parte ero giunto alla conclusione che la domanda sull’esistenza di Dio porti inevitabilmente a due alternative: l’atto viscerale della fede (sia credente che atea) e l’atto (ult)razionale dell’agnosticismo. Ovviamente, ho scelto il secondo.
Se l’esistenza di Dio (e quindi Dio stesso) non è risolvibile razionalmente, esiste nondimeno un aspetto della divinità che può essere analizzato razionalmente: l’esigenza umana del concetto del divino. Ovvero, se non esiste alcuna oggettività che può farci risalire a Dio, da dove proviene il bisogno umano del divino? Esso è necessario ed inevitabile?
Analizziamo storicamente l’idea di divinità, per capire se essa sia una necessità logica e razionale oppure sia anch’essa una spinta viscerale (probabilmente determinata storicamente).
Gli ultimi tre secoli della storia del pensiero umano (sopratutto occidentale) si possono riassumere in una parola: secolarizzazione. La secolarizzazione, nel senso originario, è il passaggio di un soggetto o di un oggetto dalla giurisdizione religiosa a quella civile. Il progresso scientifico è la massima forma di secolarizzazione esistente, in quanto sottrae intere sfere della conoscenza dalla giurisdizione teologica per porle in un ambito pienamente autonomo. Da tre secoli si assiste all’inesorabile ritirata del divino dagli ambiti della conoscenza. Il darwinismo e la biologia molecolare hanno eliminato la necessità di un fine prestabilito per spiegare la biologia (la “Vita” è un nome collettivo per designare una miriade di fenomeni e processi chimici, non è una “proprietà” attribuibile agli oggetti, pertanto non è necessario Qualcuno che la infonda alla materia “inanimata”). La fisica quanto-meccanica e relativistica hanno mostrato che i concetti di spazio, tempo, materia, energia, vuoto e determinazione causale sono categorie mentali e non “realtà” (e pertanto, hanno eliminato la necessità di cercare un Fondamento, un Primo Motore, un Creatore della realtà basata su quei concetti). La neuroscienza ci sta mostrando quanto sia labile il semplicistico concetto di “coscienza”, e quanto sia vano e fuorviante cercare un “entità mentale” discernibile all’interno del sistema neurologico, annullando definitivamente un equivalente cerebrale (e quindi materiale) al quale far corrispondere un vago concetto di “anima” (il quale è solo il reiterato errore di traduzione del soffio divino nella metafora biblica, e non un “ente” al quale attribuire una “sostanza”). Se il Big-Bang non è un’Origine (come appare sempre più probabile), ma solo una condizione al contorno di un sistema chiuso ed autoreferente, se a livello microscopico (quantistico) non esiste distinzione tra “vuoto” e “materia”, se la complessità e contraddittorietà umana si può spiegare completamente nell’interazione instabile tra substrato biologico e emergenze non-lineari (ambiente, cultura, storia sia globale che individuale), se la stessa logica ci dimostra che non è possibile alcuna spiegazione completa del “Tutto”, allora la necessità primigenia del concetto di Dio, ovvero, il bisogno di una spiegazione di ciò che non è spiegabile, si riduce ad una formuletta vuota in continua contrazione, e, pertanto, in una proprietà negativa, priva di attribuiti concreti. La necessità del concetto di Dio pertanto non è altro che la differenza tra ciò che vorremmo spiegare e ciò che abbiamo spiegato, una funzione dipendente dal progresso della conoscenza (e come tale, vincolata ai limiti intrinseci della conoscenza). Esatto, Deus ex machina. Il Dio la cui esistenza non parve necessaria a Laplace (anche se per motivazioni probabilmente errate in merito al determinismo fisico): un concetto non necessario per chi vuole spiegare lo spiegabile. Ed è qui che emerge la necessità di abbandonare parte della nostra concezione filosofica platonico-giudaica, in base alla quale esisterebbe una Conoscenza Ultima (che può essere Rivelazione Divina oppure la Ragione) ed abbracciare parte della filosofia orientale, da sempre consapevole che qualsiasi rappresentazione della realtà (e sia le religioni che le teorie sono rappresentazioni) non può comprendere l’intera realtà: da questo punto di vista, la meccanica quantistica in fisica, i teoremi di Godel in logica e (perché no?), nel suo piccolo, la cladistica in evoluzionismo, sono forme mature di conoscenza, in quanto consapevoli del limite intrinseco di qualsiasi rappresentazione.
Riconoscere pienamente il limite di qualsiasi conoscenza implica farlo con maturità, ovvero, senza cadere nel misticismo e nella consolazione viscerale alla base delle (illusioni) delle fedi (sia atee che teiste).
Se il concetto di Dio è solamente la differenza tra ciò che vorremmo sapere e ciò che sappiamo (e quindi è destinato a contrarsi inesorabilmente col crescere della conoscenza), allora diventa chiaro perché Egli, nel Paradiso Terrestre, proibisca all’uomo di mangiare dall’Albero della Conoscenza.
Cavolo, ora capisco chi è simile a Dio: uno statista degli anni 30-40 che disse: "che fortuna per i governanti la gente che non pensa".
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