sabato 31 ottobre 2009

Passaggio per le rapide


In questo periodo, tutto ciò che mi circonda è molto provvisorio ed effimero. Forse, è sempre stato così, ma ora la mia sensibilità è acuita, oppure ho smesso di assumere i narcotici classici di una vita distratta. Ad ogni modo, tutto ciò che si dimostra tale, ma era stato inteso illusoriamente come durevole, produce dolore. L'atto di ancorarsi alle rapide è più doloroso del lasciarsi trascinare. Visto sulle grandi scale, può significare una fase di transizione verso una qualche condizione nuova, la fase di punteggiatura repentina, di rottura della simmetria, la catastrofe (in senso "thomiano") che precede una nuova stagione, un nuovo ordine ancora embrionale.
Vedremo.
Come sta scritto da qualche parte, i nostri sono tempi di transizione, e solo quando ci volgeremo indietro e sentiremo di esserci distinti dall'età precedente, sapremo che la transizione è finita.

Più intelligenti che brutti



Questo post ha un profilo molto basso, ed è più una provocazione che altro.
Accodandomi a recenti polemiche e battibecchi di patetica contingenza politica nostrana, mi sono posto la domanda: cosa scegliere tra "bella e stupida" e "brutta e intelligente"?
Accantoniamo l'ipocrisia. L'estetica è la necessaria forza trainante le nostre scelte sentimentali. Necessaria ma non sufficiente. Il grado di necessità è dipendente dal nostro grado di intelligenza, anche se, ad essere ancora meno ipocriti, dubito che un'intelligenza massima scelga il partner con un grado minimo di bellezza. Ciò sarebbe poco intelligente, contraddicendo l'ipotesi di partenza. Quindi, concordato che l'estetica è necessaria ma non sufficiente, con grado di sufficienza inverso alla nostra intelligenza, qual'è il valore che diamo all'intelligenza dell'altra persona? Una bellissima oca non mi attira, ma nemmeno una sciatta befana col Nobel. Se l'estetica è necessaria, come incide l'attrattiva intellettiva?
Il criterio intelligente e non ipocrita è il seguente: l'altra persona deve essere più intelligente che brutta.
Perché?
Ammettiamo di avere come criterio la versione modificata: "deve essere più intelligente che bella." In tal caso, non potremmo scegliere Miss Italia, dato che, fino a prova contraria, è più bella che intelligente (altrimenti non perderebbe tempo in un concorso di bellezza). Ora, dato che nessuno disdegnerebbe di uscire una sera con Miss Italia, ne deduco che il criterio "più intelligente che bella" non funziona. Infatti, in base allo stesso criterio, sarebbe valida anche la sciatta col Nobel citata prima, cosa che contraddice l'ipotesi di partenza che "l'estetica è necessaria (anche se non sufficiente)".
Il criterio "più intelligente che brutta" è invece molto onesto e realista. Infatti, l'intelligenza compensa la bruttezza, ma non influisce minimamente sulla bellezza (come insegna la sempre immortale Legge di Thais).
Chi, come me, è molto attratto dall'intelligenza (quella vera, non la semplice ostentazione di cultura o il nozionismo logorroico tipico di molte presunte "persone intelligenti") può anche usarlo per giustificare eventuali interessamenti per persone "non brillanti": Miss Italia è sicuramente più intelligente che brutta (se non altro perché ha una bruttezza tendente a zero ed un'intelligenza almeno nella media), quindi rientra nell'ambito delle persone con cui vale la pena provare un approccio.

Questo post è più stupido che bello...

lunedì 26 ottobre 2009

Ebbrezze, sensu lato


Non sono un alcolista, ma apprezzo una buona birra. Bevo ogni tanto (anche perché quelle buone costano e non conviene prendere un pessimo vizio economicamente devastante) e con moderazione. Amo il retrogusto, la frizzantezza, detesto la nausea, il mal di testa del risveglio successivo e odio sopra ogni cosa il dolore che produce il conato. Non capirò mai come facciano i bevitori patologici, abbonati ai bordi del gabinetto e delle strade. In vita mia, ho vomitato a causa dell'alcol solamente una volta, per errore e a causa di un miscuglio di vino mantovano e salamelle fritte (terribile ricordo).
Eppure, ciò non mi esclude dalla categoria degli amanti dell'ebbrezza, dei viziosi recidivi, spesso incapaci di ammettere di avere una dipendenza viscerale, spesso nociva.
Non sarà alcolica, ma anche la mia ebbrezza è della stessa natura di quella bevitrice. Si assume la sostanza senza ritegno, senza pianificazione, per il puro godimento che genera, senza razionalizzare sugli esisti, sulle conseguenze, e, sopratutto, sulla lunga sbornia prima lancinante, poi dolorosa, poi fastidiosa, infine malmostosa, che il nostro scellerato vizio genererà. Al pari dell'alcolista recidivo, io ricado sempre nella stessa successione di assunzione smodata, smemorata euforia, cieca ebbrezza, conato doloroso, postumi nauseanti e finale malmostoso. Ogni volta, concludo la sbornia giurando a me stesso che non ripeterò più una simile esperienza. Ma so che sto mentendo.
Ogni volta cambia il nome, il colore, il sapore, la freschezza dell'esperienza vissuta, ma io resto sempre il solito inguaribile malato, patologicamente assetato, eternamente stupido.

domenica 25 ottobre 2009

Terapia o pazzia?

Scrivo lettere che non spedirò, ad un destinatario che non so nemmeno se esiste. E anche se esistesse, non so se leggerebbe quelle lettere, né se comprenderebbe.
Perché scrivere?
Terapia e pazzia.

venerdì 23 ottobre 2009

Asocialità indotta

Non sono superstizioso, né sono un paranoico delle congiure, ma sembra che questi ultimi 3o giorni della mia vita sembrino stati gestiti con l'obiettivo di deprimere al massimo, se non reprimere, la mia socialità, in tutte le sue forme.
Tralasciando eventi molto privati...
Professionalmente:
Impossibilità totale di partecipare all'SVP a causa del lavoro.
Impossibilità quasi totale di partecipare al Congresso di Bologna a causa del lavoro.
Pueblicamente:
Raffica di imprevisti, rinvii e annullamenti di ogni sorta che mi han reso eremita.
Ora si mette di mezzo l'influenza, che pare annullare le mie prime avvisaglie di socialità dopo 3 mesi di lavoro, tra cui una rimpatriata della Vecchia Guardia come non se ne vedevano da anni.

Quanto ancora devo accumulare prima di vendicarmi col fato?

domenica 18 ottobre 2009

In cosa credo

Essere umano significa dare significato alle cose. In sé, niente ha significato, ma lo acquista se qualcuno lo ricerca. Ciò non implica minimamente che questo significato esista realmente nelle cose. Probabilmente, al di fuori delle reti simboliche del cervello, non esiste alcun significato. L'esigenza di significato ha generato miti, superstizioni e religioni. Ma prima ancora di tutte questi epifenomeni culturali persiste l'esigenza, biologica, neurologica ed antropologica del credere in qualcosa. Nonostante questa esigenza abbia un'ovvia origine evolutiva, in quanto è un programma rapido ed efficace di pianificazione delle informazioni, l'esigenza del credere non può essere ridotta solamente a ciò. Evolvendo, essa si è sradicata dalla sua matrice evolutiva, esattamente come la meccanica della mano si è sradicata dall'atto della prensione e della manipolazione, divenendo strumento creativo, comunicativo.
Io sono ateo, non credo in nessuna patetica favoletta sovrannaturalistica. L'atto di non credere nel sovrannaturale non è esso stesso un atto di credenza, dato che, semplicemente, è solamente la reazione più semplice di fronte all'assenza di evidenze. Forse dovrei giustificare con un atto di non-credenza il fatto che non ha senso credere nelle fate o nei folletti? Analogamente, perché dovrei giustificare il mio rifiuto di credere in trite e ritrite rielaborazioni, spesso illogiche, di mitologie medio-orientali?
Nonostante il mio ateismo, io credo in qualcosa. In quanto uomo, sento di dover dare un valore a qualcosa, di credere che ci sia un significato nel mio esistere. L'alternativa è la mera persistenza biologica, l'attesa della inevitabile decomposizione imposta dalla termodinamica dei sistemi complessi come il corpo in cui elaborano questi concetti e le istruzioni che fanno correre freneticamente queste dita sulla tastiera.
In cosa credo? Credo che il significato della vita umana stia nell'elevarsi al di sopra della mera sopravvivenza. Si tratta di quello che alcuni chiamano "il richiamo della grandezza", e che non tutti possono sentire. Credo che qualsiasi azione che produrrà una persistenza del mio essere oltre l'inevitabile fine biologica sia un valore. Credo che qualsiasi atto di ricerca che aumenta la nostra conoscenza del mondo, e ci libera da paure e dubbi, sia un valore. Credo che combattere per ridurre la propria sofferenza sia un valore. Credo che l'altruismo, in quanto atto innaturale, perché spesso controproducente (sopratutto se perpetuato in un contesto a maggioranza egoista) sia un valore. Perché questi sono valori? Perché sono azioni non naturali, non istintive, non dettate dalla meravigliosa indifferenza dell'agire biologico, e quindi, permettono di trascendere (in senso laico) dalla matrice puramente organica che ci ha assemblato.
Quando qualcuno mi chiede perché debba avere questo senso "del dovere", forse retrogrado, più consono all'epica (o ai film western), capisco quanto ciò sia giusto. Se non è comprensibile a molti, significa che non è un programma biologico, e, quindi, non è solamente l'espressione di una struttura materiale alla quale non posso imporre alcunché, ma che posso solo accettare come dato di fatto. Il fatto che non sia comprensibile dalla maggioranza dei miei simili, dimostra che è giusta nel suo intento totalmente autoreferente, non finalizzato ad alcunché se non l'affermazione di un senso, senza il quale, non vale la pena continuare.

sabato 17 ottobre 2009

lunedì 12 ottobre 2009

Aggiornare Nietzsche

Tutto ciò che non ci rende più forti ci rende più stupidi.

venerdì 9 ottobre 2009

Privilegio dell'ateo

Più constato che ogni cosa è solamente un processo fisico, chimico o biologico, più mi persuado che questa constatazione è il solo motivo sensato per imporre autonomamente un senso etico alle nostre vite.

martedì 6 ottobre 2009

lunedì 5 ottobre 2009

L'Ora d'Aria


Immaginate un carcerato, condannato alla reclusione per un tempo indeterminato, sottoposto ad un partcolare regime di isolamento, al quale sia concessa una sola ora d'aria al giorno. Per un'ora può girare "liberamente" in uno spazio aperto, sebbene limitato e controllato. Per le restanti 23 ore è confinato in cella, senza contatti con alcuno. Ventitre ore di isolamento, solitudine, contro un'ora di parziale libertà, aria, luce. Immaginate cosa possa significare quell'ora, come sia vissuta, apprezzata, amata. Immaginate l'attesa della prossima ora d'aria, la frustrazione dolorosa della sua conclusione giornaliera. Se non altro, a mitigare la frustrazione, c'è la consapevolezza che quell'ora è dovuta, e che, nella peggiore delle ipotesi, la prossima non arrivarà più tardi di 23 ore.
Ora, stravolgiamo il contesto, mantenendo solamente il rapporto 1:23 tra momenti di luce, aria e parziale libertà contrapposti al buio, chiuso e solitario esistere in cella. Moltiplichiamo tutto, in modo che le ore siano mesi. Immaginate una condizione differente, apparentemente migliore della cella, nella quale però persista uno stato di solitudine, della durata di 23 mesi, intervallato ad un singolo mese di condivisione, luce e gioia. Un mese soltanto, per poi ricadere in altri quasi 2 anni di solitudine e buio. Non è necessario essere carcerati per vivere queste esperienze. A volte, l'esistenza "libera", o presunta tale, che viviamo, non è altro che un'opaca solitudine priva di luce, una gabbia senza sbarre, alternata a brevi momenti, non più lunghi di un mese, in cui tutto è trafigurato, luminoso, vasto e apparentemente senza limite. Non importa se ciò si rivela un'illusione, una trasfigurazione viscerale, un errore a posteriori, ciò che conta è che nel periodo in cui è tale, essa è sentita così, vissuta così.
Quale delle due situazioni è migliore? L'ora d'aria del carcerato, sicura, regolare, non più lontana di un giorno, o l'altra, la sua dilatazione annuale, imprevedibile e aleatoria?
La domanda, probabilmente, non ha senso.

domenica 4 ottobre 2009