venerdì 6 luglio 2012

Fine

Perché facciamo quello che facciamo, se il fine ultimo sarà un nulla definitivo?
Perché dannarsi a mangiare, bere, lavorare, accoppiarci, litigare, figliare, lottare, rubare, arricchirsi, studiare, imparare, creare, distruggere, se presto o tardi tutto si spegnerà? 
Persino nell'ipotesi che conquistassimo una forma di eterna giovinezza, l'inevitabile morte termica dell'universo, il suo spegnimento in un vacuum infinito di totale entropia o una possibile contrazione cosmica in un punto, in entrambi i casi significherebbero una fine anche per la razza di eterni giovani a cui ambiremmo diventare. Ed ancor prima di tale evento, l'eterna giovinezza non sarebbe, di fatto, un'eterna noia, dopo che tutto il mangiabile, il bevibile, il lavorabile, l'accoppiabile, il litigabile, il figliabile, il lottabile, il rubabile, l'arricchibile, lo studiabile, l'imparabile, il creabile, il distruggibile, presto o tardi fosse stato fatto? In fondo (in tutti i sensi) quello sarebbe il destino degli eterni: la noia eterna. 
A che pro lasciare qualcosa di sé, se coloro che potranno ricordarlo e comprenderlo, prima o poi, saranno anche loro svaniti nel nulla? A che pro, se comunque il pianeta nel quale le nostre gesta ed amori si sono da sempre svolti e sicuramente per moltissimo tempo ancora sarà la sola arena delle nostre imprese, in qualche miliardo di anni sarà dissolto dall'espansione termodinamica del sole?

Pare inevitabile cadere e decadere in un passivo nichilismo.

L'alternativa, paradossale, potrebbe essere di non porsi queste domande, di dedicarsi ad un edonistico appagamento di ciò che abbiamo, fintanto che lo avremo.
La porta che conduce fuori dal recinto consolatorio di un dio eterno, contraddittorio ma perlomeno in grado di fornire una seppur vaga forma di senso, di fine, di motivazione, è una porta difficile da aprire per chi tenta la fuga, impossibile da riaprire per chi è uscito. Troppo stretta e troppo angusta, fredda, umida e asfittica è la casa del padre inesistente per chi, finalmente, si è liberato dalla sua oppressione.

Ogni persona nasce per caso, combinazione casuale e caotica di fattori contingenti pre-esistenti, non prescritta né deducibile a priori. Ogni persona inizia ad essere molto dopo che l'informe creatura, la piccola scimmietta nuda, indifesa, prima come vagiti, poi come versi ripetuti, si affaccia ad un mondo che la precede e la seguirà di miliardi di anni. Ogni persona smette di essere quasi sempre ben prima che la combinazione ordinata delle sue particelle inizi a decadere, dissolversi e tornare parte del flusso termodinamico. Nessuno di noi, quindi, ha un vero momento di inizio né di fine, ma solo una blanda finestra di persistenza, di parvenza di consapevole esistenza, intervallata da molti, spesso troppi, momenti di inconsapevolezza, di assenza, di vuoto, di sonno, di coma, di oblio. Nessuno, quindi, è un continuum, né un segmento di storia, bensì un'onda perturbata, riccamente interferente ed interferita, un tracciato indistinto di cui è possibile riconoscere solo la parte più opaca, centrale, spesso in modo arbitrario.
Scoprirsi così blandi, diffusi, incoerenti, indefinibili nei limiti, nell'estensione, nel contorno, forse è la sola spiegazione dell'ansiogena ed irrisolvibile consapevolezza di essere effimeri.




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